Se i cristiani dimenticano che cosa è famiglia
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Alcune considerazioni prendendo spunto dalla lettera congiunta apparsa su BRESCIAoggi del 01/12 a firma di don Fabio Corazzina ed Anne Zell, pastora valdese di Brescia, che affermano la ormai urgente necessità di estensione del “riconoscimento da parte delle istituzione e della società civile delle varie forme di famiglie e di unioni”. Voglio innanzitutto portare un contributo al dibattito, basato puramente sulla ragione e non ancora sul credo religioso.
Innanzitutto sul riconoscimento delle libere convivenze. Si tratta di un errore giuridico oltre che morale (inteso in senso pienamente laico, cioè del bene della società), almeno per le seguenti ragioni:
1) la decisione di non contrarre vincolo è libera da parte dei 2 soggetti; non si vede per quale ragione si debba imporre un legame quando deliberatamente i soggetti lo rifiutano; se lo desiderano, possono benissimo sposarsi ed il problema è risolto, con oneri ed onori;
2) socialmente, unioni del genere documentano ed incarnano la precarietà della società, nella quale nessuno vuole più doveri e vincoli ma tutti pretendono diritti; riconoscere questi legami (in pratica con soli diritti) da parte delle istituzioni significa inevitabilmente incentivare la labilità sociale, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutto, gravi soprattutto per i soggetti più deboli (in particolare i figli, specie piccoli); quindi incentivare queste unioni toglie moltissimo alla famiglia perché invita apertamente a non costituirla; brutalmente: chi me lo fa fare di sposarmi se con una libera convivenza ho pari diritti? Mica sono scemo: ho gli stessi vantaggi e, il giorno che voglio, mando la mia compagna a quel paese dall’oggi al domani senza alcuna conseguenza! Che problema c’è?
3) vi immaginate a quante “furbate” e contenziosi potrà condurre in sede giuridica un eventuale riconoscimento da parte delle istituzioni? Non sono un esperto, ma pensate solo a quale potrebbe essere un criterio oggettivo, documentabile e sufficiente per stabilire una convivenza (che originerebbe diritti): testimonianze? Residenza anagrafica nello stesso edificio? E da quanto tempo? 10 anni, 1 anno, 1 mese, 1 giorno? Verrebbe spazzato via l’unico criterio oggettivamente riscontrabile: il legame stabile riconosciuto e codificato (matrimonio), e non si avrebbe più alcun riferimento oggettivo. Un disastro giuridico.
Per quanto riguarda le altre convivenze, si tratta di quelle derivate da seconde nozze (evidentemente già riconosciute dallo Stato, quindi non oggetto del dibattito), e da quelle omosessuali. Quanto a queste ultime, si parla spesso di discriminazione, ma a sproposito. Questo termine significa “trattare cose (o persone) uguali in modo diverso”. Ora, sfido chiunque ad affermare che una relazione tra persone dello stesso sesso sia uguale a quello tra uomo e donna: dal punto di vista fisico, biologico, mentale, affettivo, psicologico, emozionale e della fecondità. Sono cose diverse, e come tali vano trattate! Ma c’è di più: dal punto di vista giuridico la ragione sulla quale si fonda il riconoscimento delle unioni da parte dello Stato non è il rapporto affettivo tra di loro. Per quanto possa apparire strano, allo stato questo non interessa minimamente, altrimenti esisterebbero anche una serie di altri legami che dovrebbero essere tutelati (l’amicizia, per es.). La ragione giuridica consiste nel ruolo sociale che la famiglia ha in quanto culla e luogo per la nascita, la crescita e l’educazione dei figli, caratteristiche proprie delle relazioni tra uomo e donna per ragioni piuttosto evidenti.
Infine alcune considerazioni più di tipo cattolico. La lettera citata, “nel rispetto delle scelte personali, lasciando libertà e non penalizzando o condannando pur mantenendo a livello di ordinamento ecclesiastico posizioni diverse sul riconoscimento delle varie forme di famiglie e di unioni” ed invocando il dialogo con tutti, pare ormai sdoganare tutti i tipi di unione possibili. Bisogna, si dice, far diventare le nostre comunità “spazi accoglienti dove trovare ascolto e sostegno, dove confrontarsi senza esasperazioni e condanne su vari modelli di vita responsabile (cristiani e non) rispettando le differenze e rinunciando a delle discriminazioni”. Dissento con fermezza: le persone non si condannano mai ma, come dice il testo giustamente, si accompagnano e si aiutano; ma i modelli di vita sbagliati quelli si condannano, ci mancherebbe! Chi si sposa davanti a Nostro Signore gli dice: “Io so che tu, o Signore, ami personalmente ciascuno di noi come se fosse unico al mondo, e che ciascuno di noi è prezioso ai tuoi occhi; ora io ricevo dalle Tue mani questa donna come un dono per me e Ti chiedo, umilmente, di essere un segno del Tuo amore per lei”. Si chiede cioè al Signore di essere per Lui un’umanità “aggiunta” per così dire, di prestare a Dio le mani, la volontà, le capacità, l’intelligenza, le doti, in una parola tutta la propria umanità perché il Suo amore per quella persona si faccia carne e sia evidente. Uno, solo guardando a suo marito/sua moglie, dovrebbe poter dire: quanto mi ama il Signore! Questa è la nostra fede, e su questo si fonda l’indissolubilità del matrimonio, non su altro, e ci aspettiamo che i nostri parroci insegnino questo ai giovani. Ne va della salvezza dell’anima nostra e dei nostri fratelli e sorelle, che è l’unico scopo della nostra vita e la grande missione della Chiesa. Ma lo crediamo veramente? L’accoglienza e l’amicizia con le persone in situazioni difficili o irregolari quale scopo hanno? E il dialogo così invocato è un fine od un mezzo? Qual è il fine ultimo? E’ ancora la salvezza dell’anima o no? Ma ci interessa ancora? E nell’accompagnamento è necessario o è un optional indirizzare la coscienza di chi è in difficoltà (certo con delicatezza, ma con fermezza) verso la verità di se stesso? Rinunciare a questo è abdicare alla propria vocazione cristiana, è come affiancare uno che sta affogando nel mare dicendogli “Oh come nuoti bene” invece che aiutarlo a uscire dall’acqua. Ci basta questo come persone con una importante responsabilità educativa?
C’è un po’ troppa confusione sul significato della parola dialogo. Lasciamo la parola al Beato Papa Paolo VI, che molto se ne intendeva: “Non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna inoltre adoperarsi affinché si convertano. Occorre predicare perché ritornino. Occorre recuperarli all’ordine divino che è uno solo” (discorso del 27 giugno 1968). Le parole in corsivo sono in originale nel testo dell’Osservatore Romano.
Da meditare profondamente quanto dichiarato esplicitamente e senza paura dal Card. Caffarra nella lettera “Perché non posso tacere. Appello ai fedeli di Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, 13 aprile 2014”:
“Non mi interessa dunque l’aspetto etico della cosa; e non è di temi etici che parlo. Purtroppo la questione è molto più profonda. E’ una questione antropologica. Si sta gradualmente introducendo nella nostra convivenza una visione dell’uomo che erode e devasta i fondamentali della persona umana come tale. Non è di condotte quindi ciò di cui stiamo discutendo. E’ la persona umana come tale che è in pericolo, poiché si stanno ridefinendo artificialmente i vissuti umani fondamentali: il rapporto uomo – donna; la maternità e la paternità; la dignità e i diritti del bambino. Carissimi fedeli, entriamo nella Settimana Santa. Perché Dio si è fatto uomo? Perché è morto crocifisso? Non c’è che una risposta: perché ricco di misericordia, ha amato perdutamente l’uomo. Ogni volta che ferisci l’uomo; che lo depredi della sua umanità, tu ferisci il Dio – uomo. Tu neghi il fatto cristiano. Ecco perché non ho potuto tacere. Perché non sia resa vana la Croce di Cristo” . […] Sono in questione le relazioni fondamentali che strutturano la persona umana.
E terminiamo con questa bellissima e cristallina citazione di G.K. Chesterton:
«Non c’è che un peccato: dire che una foglia verde è grigia,
per questo il sole in cielo rabbrividisce
… non c’è che un credo: sotto l’ala di nessun terrore al mondo
le mele dimenticano di maturare sui meli»
Esprimiamo infine l’auspicio, e facciamo appello affinché i pastori della diocesi facciano sentire forte la loro voce per riaffermare con chiarezza la verità sull’uomo e, nei dovuti modi e con la necessaria discrezione, non consentano più a chi ha il compito di guidare le anime di diffondere idee che sono palesemente in contrasto con la morale cattolica, cioè con il bene comune.