“Dedicato a chi crede che le radici non contano”
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(Antoine Vincent Arnault, La feuille)
«Lungi dal proprio ramo, / Povera foglia frale, / Dove vai tu ?»
(G. Leopardi, Imitazione)

E’ famosa, questa massima di Confucio: «Raccogli le tue cose, vai sulla riva del fiume, siediti e aspetta. Un giorno vedrai il cadavere del tuo nemico passarti davanti». L’ho fatto. Mi sono messa tranquilla e pazientemente ho aspettato.
Pontifica, Repubblica, sulla liceità, anzi, i benefici dell’eterologa, senza se e senza ma. Su come e quanto la genitorialità intesa come accudimento superi di gran lunga il legame con i genitori biologici. Non che apertis verbis inneggi, Repubblica, all’affitto degli uteri, al bombardamento di ormoni, alla compravendita di gameti femminili, alle mamme-uovo e le mamme-pancia, alle maternità surrogate, all’abbandono del bambino-oggetto, se/quando il “prodotto” risulta difettato. Glissa furbescamente sui “dettagli” che ci racconta la cronaca, nel percorso dall’ovulo al prodotto finito. Prona al politically correct, liquida la mercificazione delle donne e la reificazione dei bambini con la sigla GPA, neolingua che con un colpo di bacchetta magica fa sembrare la compravendita di esseri umani, un atto di altruismo postmoderno. E pazienza se coppie ricche sfruttano la povertà economica o culturale di donne bisognose, e se quei bambini vengono da subito e per sempre strappati dal seno della madre che li ha tenuti in grembo e ha dato loro la vita, o se vengono tranciate per sempre le radici con quel padre che ha donato il seme e per contratto deve sparire dalla circolazione.
Bene. Quando i giornalisti non ricevono l’ordine di scuderia di compiacere alle lobby, quando non sono impegnati a difendere l’indifendibile per soldi o per sentirsi degni di sedere nei salotti buoni del pensiero unico, accade, a volte, che la verità buttata fuori dalla porta perché politically uncorrect, rientri… dalla finestra. Capita. E’ capitato.
Stufa di controbattere a chi loda pratiche che gridano vendetta al cospetto della ragione, prima ancora che di Dio, mi sono seduta sulla riva del fiume e ho aspettato pazientemente. Come volevasi dimostrare, puntuale il cadavere è passato. Il cadavere putrefatto dell’ideologia.
Si tratta di un articolo “Dedicato a chi crede che le radici non contano”, uscito di recente su D di Repubblica, a firma di Elasti, alias Claudia de Lillo, che cura lì una rubrica.
«Vengo da una famiglia numericamente piuttosto piccola e geograficamente sparpagliata», esordisce la giornalista. «Del mio albero so ben poco, delle mie radici ho tracce lievi e confuse e dal mio passato arrivano voci flebili che non distinguo. (…) Come la volpe con l’uva, negli anni ho cercato di persuadermi che la mia storia non sia poi così importante. Mi sono concentrata sui legami creati dalle scelte e dalla vita più che dal sangue. Mi sono convinta, con l’ottusa caparbietà dei bambini e dei muli, che siamo gli unici artefici della nostra pasta, che si sta bene anche senza sapere chi eravamo ancora prima di essere piccoli, che il libero arbitrio fa di noi quel che siamo, ben più del nonno.
Ho le mani del papà, la bocca della mamma, le gambe della nonna, i peli della zia. E allora? Un contenitore non fa un contenuto, mi sono detta, e ho proseguito nel mio cammino solitario e sradicato, rifiutandomi di andare a cercare quell’uva troppo lontana e nascosta per meritare i miei sforzi. La famiglia, e le radici a cui è attaccata, non si scelgono, a volte non si conoscono nemmeno. Eppure succede di inciampare, in quelle radici».
E inizia a raccontare cosa le è successo. Il ricordo di una cugina e degli incontri quando erano bambine. Poi la cugina si è trasferita e si sono perse di vista. Ora sono adulte, con «compagni, figli, vite altre e lontane da quelle due ragazzine con la ridarella». E la decisione di rivedersi: tre giorni insieme «e ho riconosciuto le voci, gli odori, le parole. Sono stata con i suoi bambini, così somiglianti ai miei, ho ascoltato la sua musica che è anche la mia, ho scoperto che leggiamo gli stessi libri, amiamo cucinare e abbiamo un’insana passione per i frullatori. Non ci somigliamo ma abbiamo un modo nostro di essere identiche. (…) Insieme abbiamo guardato fotografie, abbiamo ricomposto il puzzle dei nostri ricordi, abbiamo ritrovato gesti, parole, canzoni, nomi che non abbiamo scelto ma sono parte di noi».
E così conclude. «Mi sono persa un bel pezzo di strada. Alcuni tratti non li ritroverò più. Ma quella improvvisa, insolita familiarità ha fatto vibrare corde che pensavo assenti, o almeno dormienti. E, da oggi, far finta di venire dal nulla, come gli extraterrestri, sarà più difficile. Forse impossibile».
Mi scuso per la lungaggine della citazione, ma ci tengo a far capire che non sto interpretando la giornalista di Repubblica, la sto citando, alla lettera.
“Dedicato a chi crede che le radici non contano”: non una riflessione mia, ma sua.
Non ho nulla da aggiungere, se non che c’è bisogno, oggi più di sempre, di tornare a guardare con onestà intellettuale la realtà, l’esperienza, la vita. Ciascuno, non fosse imbevuto di slogan, saprebbe dire da sé quanto contano le radici, nella propria esistenza. Chi scientemente queste radici le strappa, chi con la (ri)educazione a scuola, sui media, dagli scranni della politica cercasse di convincere i giovani che non sono importanti, non sono necessarie, mente sapendo di mentire. E nega la realtà che, quando Repubblica si distrae, si rivela, chiarissima, persino lì.