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Classe 1926

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Questi giorni di angustie / sono il tempo in cui tutto in noi / lavora per lui.
Sii paziente e di buona volontà, / il minimo che puoi fare / è di non resistergli più di quanto / la terra resiste alla primavera / quando essa viene».
(Rainer M. Rilke)

L’avevo già sentita questa storia, ma a volte siamo come Tommaso: per credere abbiamo bisogno di mettere le mani nelle piaghe della realtà.
Tengo compagnia, il pomeriggio, ad una amica ricoverata in ospedale. Classe 1926, è stata maestra tutta la vita: in aula e aiutando gratuitamente, a casa, i bambini che facevano un po’ di fatica. Le dicevi un nome e un cognome e in quattro e quattr’otto ricostruiva l’albero genealogico dell’interessato: figlio di, cugino di, nipote di, sposato a… Potevi star certo che a scuola aveva avuto come allievo qualcuno della famiglia o un vicino di casa. In questo modo teneva in mente la rete dei rapporti all’interno del centro storico e anche dei dintorni. E una memoria da fare invidia a un giovane. Fino a qualche anno fa. Poi senza preavviso è arrivata una di quelle malattie che un pezzetto alla volta ti rodono dentro e si prendono i nomi, i volti, le parole, i ricordi. Un po’ alla volta, lentamente che quasi non te ne accorgi.
Quando aveva un po’ di tempo libero, da giovane e finché non è stata colpita dal morbo di Parkinson, amava ricamare, lavorare a ferri o a uncinetto. E così dalle sue mani sapienti e veloci sono uscite lenzuola bordate e ricamate, tende, centrini, asciugamani con il pizzo, abitini per i più piccoli e maglioni per i grandi. Ha preparato il corredo per la figlia, per la nuora, per me che sono solo un’amica. E vestitini per le sue quattro nipoti femmine, per i miei due figli, che appena nati avevano lenzuolini che conservo tra i ricordi preziosi.
Quando vado in ospedale a farle compagnia, a volte parla e a volte no. A volte mi riconosce e a volte no. Per farle passare un po’ il tempo oggi le ho raccontato dei miei figli: la più grande a Padova all’università, il secondogenito che tra poco sosterrà l’esame di maturità, le sue passioni, le lezioni di violino… Mi guardava, ascoltava attenta, annuiva. Ma non ricordava chi fossero.
C’è, ad assistere una delle compagne di camera, la figlia. Oggi si è avvicinata al letto della mia amica per salutarla e le ho raccontato che era bravissima, che amava lavorare a maglia, e ricamare. Lei mi guardava, ascoltava. Non ricordava più nulla: neanche un manufatto tra quelli di cui andava orgogliosa, neanche un punto di quei milioni di punti. Niente. Spariti dalla memoria. Come gli alunni, le colleghe, i vicini di casa, i parenti, gli amici. Persino il marito, morto una ventina di anni fa. Nemmeno il suo compleanno, che sarà domani. Sa chi sono, ma in questi giorni non mi ha mai chiamata per nome.
Allora ho smesso di portare a galla ricordi. Le ho solo preso la mano e l’ho stretta alla mia. La guardavo, mi guardava. Poi le ho dato un po’ da bere e le ho sistemato il cuscino. E le ho raccontato qualcosa del presente e delle cure che sta facendo, promettendole che presto sarebbe tornata a casa.
Ascoltava.
Non ha dolori, la mia amica. E’ ricoverata per una broncopolmonite e una forte anemia. Un po’ la idratano, un po’ la curano, e hanno previsto accertamenti. Intanto le fanno qualche flebo, esami, e alle sue pastiglie di sempre hanno aggiunto gli antibiotici. E chissà come sono le ore, qui, senza la sicurezza delle stanze di sempre, senza i ritmi soliti delle giornate tra casa e giardino. Senza i volti che conosce, senza la tivù.
Dov’è la mamma? Voglio la mamma, ha detto d’un tratto, mentre eravamo in silenzio e le accarezzavo una mano.
Era questa la storia che avevo sentito e che credevo leggenda.
Tra poco arriva, ho detto a questa bambina che compirà 88 anni domani. Intanto ci sono qui io. Ha chiesto a me di farti compagnia come te la farebbe lei.
La guardavo. Rannicchiata nel letto con le bandine come fosse in una culla, no, nel grembo materno, pare cerchi pareti non di ferro ma di carne. Pallida, magra, consumata dagli anni e dalle magagne degli ultimi tempi, ha la pelle liscia come il velluto, liscia come i bambini. Osservavo i suoi occhi smarriti e avrei voluto prenderla in braccio come quand’era piccina.
Oggi, come Tommaso, ho messo le mani nelle piaghe della realtà e ho capito.
Potranno abolire per legge la parola madre e sostituirla con genitore uno, due o con ciò che vorranno. Potranno sfornare libri e trattati su come si possa crescere bene anzi benissimo anche senza mamma, per giustificare uomini che acquistano ovuli e affittano uteri e comprano figli per averli tutti per sé. Potranno tenere conferenze e convegni sull’inutilità della figura materna. Ma è capitato e capiterà ancora: a smentire le teorie, anche nel vuoto della memoria senza ricordi, come oggi si farà strada, dolcissima, la parola mamma, perché è da lei che veniamo.
E dopo l’ultima curva della vita, all’appuntamento più importante ci presenteremo senza i soldi, le idee politiche, le passioni, i titoli acquistati in vita. Solo come figli.

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