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Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco

Fonte:
CulturaCattolica.it
Quando i nemici salgono in cattedra. La strana combriccola degli apologeti di Papa Francesco: avversari, apostati, ex... Tutti sanno perfettamente che cosa fare... ma noi preferiamo la saggezza dei santi!

Sembra una situazione surreale: coloro che da sempre hanno osteggiato la Chiesa, tradito il loro sacerdozio, accettato dottrine e prassi contro la fede, sembrano oggi gli interpreti più accreditati di un cristianesimo che si vorrebbe finalmente adatto ai tempi, accettabile dagli uomini, portatore di novità e speranza.
Così si inneggia a Papa Francesco, per cui “Roma è ridiventata la capitale del mondo… Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo” e si scrivono articoli elogiativi di un fantomatico «nuovo corso» che, se fallisse, porterebbe la Chiesa nel baratro della insignificanza. Ci si riferisce alle riflessioni del Card. Martini, che, riportando le parole di un giovane, così sentenzia: «Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?». Ritenendo questo «il pensiero della gran parte dei giovani europei».
Da nemici e apostati a cocchieri e mentori di un nuovo corso ecclesiale. Sostenuti dalle autorità ecclesiastiche che sentenziano che «dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso».

Bene, a dire il vero ritengo che invece che richiedere un adattamento della dottrina e della prassi della Chiesa nei confronti di situazioni gravi e irregolari, ci si debba chiedere «Ma di chi è la colpa di questo abissale allontanamento degli uomini di oggi dalla dottrina e dalla pratica della fede cristiana?»
Allora si scoprirebbero tante risposte che darebbero il via a un vero pentimento e alla ripresa della missione e della testimonianza cristiana. E qui ci aiutano le riflessioni di don Giussani che, in una splendida conversazione, rispondeva alla provocatoria domanda di Eliot: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?»
Ascoltiamo le sue parole, per ripartire da un maestro della fede che tanto ha fatto per la rinascita della Chiesa nel mondo di oggi. E così smetteremo di usare le sue parole per sostenere un «tirare i remi in barca» di fronte a una situazione dell’umanità e della fede che sembrano disperate, rilanciando quell’affascinante compito di «nuova evangelizzazione» così caro ai Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e così presente nelle parole di Papa Francesco.
Poco prima di morire don Giussani aveva così risposto alla domanda posta dal poeta: « “Tutte e due, tutte e due, perché innanzitutto è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, perché se io ho bisogno di una cosa, le corro dietro, se quella cosa va via. Nessuno correva dietro…”. Ma la Chiesa? Lentamente, dolorosamente e poi con impeto, Giussani rispose: “La Chiesa ha cominciato a abbandonare l’umanità secondo me, secondo noi, perché ha dimenticato chi era Cristo, non ha poggiato su… ha avuto vergogna di Cristo, di dire chi è Cristo”» [Citato da Antonio Socci].
Allora è questo il tempo di annunciare Cristo, e di mostrare la sua pertinenza all’uomo, di oggi come di ieri. Colla consapevolezza di quanto affermava da Giovanni Paolo II con coraggio e passione: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» e, per essere ancora più chiari, colla preoccupazione fondamentale di don Giussani nel suo cammino educativo: «Il potere mondano tende a risucchiarci: allora la nostra presenza deve fare la fatica di non lasciarsi invadere, e questo avviene non solo ricordando e visibilizzando l’unità tra noi, ma anche attraverso un contrattacco. Se il nostro non è un contrattacco (e per esserlo deve diventare espressione dell’autocoscienza di sé), se non è un gusto nuovo che muove l’energia di libertà, se non è un’azione culturale che raggiunge il livello dignitoso della cultura, allora l’attaccamento al movimento è volontaristico, e l’esito è l’intimismo.
L’intimismo non è presenza, per l’intensità e la verità che diamo a questa parola. Nelle catacombe si crea un proprio ambito, quando non si può fare assolutamente in modo diverso e si è nel dolore dell’attesa di una manifestazione.
La modalità della presenza è resistenza all’apparenza delle cose ed è contrattacco alla mentalità comune, alla teoria dominante e alla ideologia del potere; resistenza e contrattacco non in senso negativo, di opposizione, ma come lavoro.
Per indicare e per definire l’esprimersi di una presenza secondo una dignità anche semplicemente umana non esiste che la parola lavoro: cioè portare dentro tutto, su tutto, l’interesse della nostra persona.
La forza della nascita del nostro movimento è solo questa e nessuno immagina ora la ricchezza di reazione che qualificava i nostri primi gruppetti di fronte a ogni pagina che si studiava o ad ogni cosa che avveniva.»

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