Misericordia e giustizia
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Forse la cosa potrà sorprendere, ma, per quanto misericordia e giustizia nei loro effetti sembrino opporsi, tuttavia la prima si avvicina tanto alla seconda da elevarsi su di essa, senza ombra di contrasto. Entrambe, infatti, consistono in un dare qualcosa, però in modi diversi. La giustizia infatti dona secondo la proporzione di chi riceve, secondo quanto gli è dovuto, la misericordia dà sempre qualcosa in più: se ad un debitore si deve 100, la giustizia darà 100, la misericordia farà sì che abbia 150.
E’ curioso come oggi questo discorso risulti particolarmente lontano dalla nostra concezione di misericordia, tanto intrisa di buonismo e di pacifismo. Si “salta” a piè pari il concetto di debito, sia con Dio che, spesso, con gli altri, nei confronti dei quali si stenta ad esercitare l’uguaglianza dei diritti, così che il dare il dovuto appare quasi un’eccessiva pretesa. Si ha l’impressione che, lo dico con schiettezza, si abbia di mira il “farla franca”, quasi che la soluzione dei problemi personali e sociali abbia come unica strada l’astuzia.
E’ in questo modo che, troppo spesso, si tende ad evitare di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e dei problemi che ci spetta di risolvere. Quale meraviglia che accada questo, dal momento che stiamo via via eliminando ogni soggetto a cui di solito occorre rispondere, a partire dalla figura del padre, per finire con le altre forme di autorità legittima, al di sopra delle quali si trova Dio?
Non è forse da questo sfondo culturale e sociale che emergono sempre più forti le insistenze di coloro che, vivendo una situazione di irregolarità matrimoniale, come i divorziati che hanno una nuova relazione, esigono dalla Chiesa quello che Essa non può concedere? Per misericordia.
Un’altra cosa che sorprende è quella che, in seno alle discussioni o ai proclami relativi a questo problema, non si faccia quasi mai riferimento a ciò che la Chiesa permette loro, secondo quanto si dice con chiarezza nell’Enciclica Familiaris consortio (n. 79 e). Vale a dire, coloro che, in tale situazione di irregolarità, colti dalla grazia del pentimento e del sincero proposito di emendarsi, non possono, a motivo dell’educazione dei figli, lasciare la persona amata, hanno una via d’uscita. Hanno cioè la possibilità di vivere una vita di penitenza come esige il sincero pentimento, il quale riconosce il torto commesso e vuole riparare, nell’ordine stabilito dal Dio che si è offesi con la propria azione. Questa via d’uscita consiste nel vivere in castità totale, da fratello e sorella con il partner, in modo da adempiere agli obblighi dell’educazione dei figli, eventualmente nati dall’unione irregolare, rispettando così di nuovo la realtà del matrimonio (l’unico valido), un tempo violata.
Perché non si parla con chiarezza e con opportune catechesi di questa possibilità, se non in casi molto rari? Certamente si tratta di un cammino molto scomodo, ma non impossibile, se vissuto nella grazia e nella preghiera. Con questi propositi e impegni seri, infatti, risulta praticabile la via dei sacramenti: Confessione sincera prima e finalmente la Comunione. Ma non basta. C’è un’altra condizione significativa che va rispettata: non si può accedere alla Comunione in una Chiesa in cui si è conosciuti, così da evitare lo scandalo che si genererebbe se si venisse a sapere che un divorziato che ha una nuova relazione pubblica riceve la santa Eucaristia. La Chiesa, prescrivendo ciò, manifesta che tale possibilità non è un’eccezione alla regola, bensì l’unico modo per fare vera penitenza. E, dato che la prima condizione, la castità, non è sotto gli occhi di tutti, occorre fare attenzione che non si ingeneri scandalo, vale a dire che il popolo fedele non creda che si possa concedere liberamente la Comunione ai divorziati con una nuova relazione.
Ma come parlare di castità perfetta in una società sessuomane come la nostra? Chi ha le disposizioni interiori per intraprendere un cammino così arduo? Si ha la consapevolezza della verità del matrimonio, delle sue esigenze, nella sua natura? Quali sono gli impegni che riguardano i figli? Ho l’impressione che, al di là della ricerca della gratificazione personale, ci si rifiuti, spesso, di riconoscere il male che si compie nel venire meno agli impegni di fedeltà, di cura dell’altro, di educazione e sostegno dei figli. Pertanto, nella logica che si esprime nell’esigere la soddisfazione della propria volontà arbitraria si misconosce la violazione dei diritti delle persone a noi affidate e di quelli di Dio e si continua ad assumere un atteggiamento di pretesa. Quindi occorre porsi con sincerità questa domanda: perché si vuole ricevere la Comunione? Un autentico cammino di fede non può consistere solo nell’infantile “bisogno” di ritrovare un appoggio affettivo in Dio o di “mettersi a posto la coscienza” in vista della vecchiaia; questa, di per sé, non è un’attesa priva di fondamento se non viene isolata da quello che è il vero fulcro della penitenza: il riconoscimento doloroso di aver provocato delle ferite tremende ai propri cari, difficilmente sanabili, e di aver violato il rapporto di amore con Dio, disprezzando il Suo sangue versato. Ma tale consapevolezza, quando è veramente presente nel cuore, non può muovere se non al desiderio di riparare, non provocando ulteriore male, e quindi di rapportarsi nei confronti di Dio e dei Suoi doni sacramentali con timore e tremore.
Si vuole, invece, forse tenere i piedi in due staffe? fare ciò che aggrada e poi esigere ciò che non spetta? Ma questo atteggiamento non sarebbe misericordia: non ci sarebbero, infatti, neanche i presupposti della giustizia. Come rilevò il card. Biffi nel suo libro Dodici digressioni di un italiano cardinale, i divorziati che vivono una nuova relazione non possono chiedere ai sacerdoti di diventare dei traditori di Dio e della Chiesa.