Come si vive con un papà che «dormiva sempre»
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(E. Montale, I limoni)

Come l’arancio di cachi polposi sbucati da rami che diresti senza vita. Così mi appare, in questo inizio d’anno grigio nel cielo e nei cuori, la storia di Francesco Ederle: un ictus nel 1989, quand’era un giovane trentacinquenne, e poi 24 anni e sette mesi di coma. Che non ha potuto parlare e giocare con i suoi figli Giovanni e Camilla, eppure c’era, c’è sempre stato.
Francesco è morto qualche giorno fa, prima «dormiva», come racconta il primogenito, che all’epoca aveva due anni e parla del padre come una presenza presente. In quel letto, e nei racconti che di lui faceva la nonna Annamaria, la mamma Francesca. Nel Dna di questo giovane: i tratti del volto che rimandano al suo papà. E poi nelle passioni per cui oggi Giovanni segue le orme del padre e fa «quello che avrebbe fatto lui», che, primo a Verona, nel 1985 aveva aperto un agriturismo con il nome della chiesetta vicina, San Mattia e lì, tra vigne ed ulivi, aveva portato anche i cavalli.
Lì, a San Mattia, Giovanni ha piantato altre vigne e nella terra di suo padre produce vino e olio, alleva galline, oche, conigli. Lo stesso amore per la terra e per gli animali. Perché la vita è così, e si può imparare anche da un padre che non si muove e che non parla ma «dorme» per 24 anni e sette mesi e giorno dopo giorno ti accompagna, comunque, a diventare l’uomo che sei diventato. E si impara da chi amorevolmente si prende cura di una adulto come fosse un bambino. La nonna Annamaria, che dopo i primi dieci anni in collina, l’ha voluto portare nella sua casa a San Fermo perché quando si è madri, si è madri per sempre.
«Quella di mio padre e la nostra – racconta Giovanni al Corriere del Veneto – è una storia di speranza. La speranza che era soprattutto di mia nonna. Lei aveva una fede incrollabile. “Mettiamoci nelle mani del Signore”, diceva. Ma soprattutto era una che non si faceva grandi domande e non cercava grandi risposte. Faceva quello che c’era da fare, anche con mio padre».
E a chi ora gli domanda come si vive con un papà che «dormiva sempre», e se ha mai pensato che non sarebbe stato meglio se fosse morto prima, Giovanni risponde che «quella con lui è stata un’esperienza impagabile. Lui non parlava, dormiva. Eppure se non ci fosse stato non avrei imparato tante cose…».
Mentre in Belgio si vota l’eutanasia per i bambini, e per malati e disabili la nostra epoca prova imbarazzo per non dire disgusto, finisco di leggere pagina 7. E come un frutto d’inverno, inatteso e insperato, il racconto di questa storia si fa luce nel cuore.