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Il Papa a Bresso. Quel tu che ci salva dal disfacimento

Autore:
Bonvegna, Giuseppe
Fonte:
CulturaCattolica.it

«Che siano una sola cosa, perché il mondo veda». Non è soltanto per un ricordo generante sempre nuova speranza che scrivo queste riflessioni attorno alla Messa del Papa di domenica 3 giugno a Bresso. Perché i ricordi personali anche sulla famiglia, in questo caso, non possono non confluire, come un fiume in piena che si getta nel mare della vita attuale, nella concretezza di un presente. Un presente che, per chi crede, solo il supremo Sacrificio della Messa riesce davvero a trasformare nelle note conclusive di una sinfonia formata dai suoni del passato (che altrimenti resterebbero dispersi in una storia senza senso), ma che, comunque, ha a disposizione, come richiamo a un’autenticità ormai quasi scomparsa, l’appello che il Papa ha fatto, per tutti, all’unità della famiglia.
Viviamo in un tempo in cui (è impossibile negarlo) l’individualismo ha ormai permeato la mentalità, tanto che non è fuori luogo sostenere che ciò che Augusto Del Noce (1910-1989) aveva preconizzato essere la società opulenta come esito ultimo della trasformazione dell’ideologia marxista, si sia realizzata oggi sotto forma di sempre nuove forme di solitudini. E’ infatti una vera e propria non conoscenza innanzitutto di se stessi a farla da padrona nelle scelte e nelle non scelte dei giovani (e degli adulti) di oggi e ciò deriva anche dal fatto che abbiamo sempre meno di fronte a noi volti in grado di riconoscerci per quello che davvero siamo.
Muore l’io perché è venuto meno il tu, e allora le parole del Papa sono un qualcosa di più rispetto a una lezione di cristianesimo, ma investono l’umano in quanto tale, nella sua struttura profonda. Benedetto XVI ha compreso che l’umanità di oggi non ce la farà a risalire la china del nichilismo se, almeno nella famiglia cristiana, il tu dell’altro non salva il mio io dal disfacimento, accettando la sfida affascinante di condividere la vita, tutta la vita, con me.
Ci voleva un Papa anziano e affaticato da non inedite polemiche sulle finanze del Vaticano e sui segreti dei suoi Palazzi per ricordare al nostro mondo (che prostituendo la bellezza ha reso impossibile l’amore) che è bello amare l’altro e che l’amore, se non significa donazione totale di sé, si trasforma in violenza. E ci volevano un milione di persone e il prato di un aeroporto di cui a malapena sapevamo l’esistenza e che interrompe l’umanità difficile di una periferia, che comunque non è mai stata abbondonata da Cristo. Per annunciare che la Chiesa vive ancora come il solo luogo nel quale speranza non fa rima con ideologia e rimane quindi l’unica possibilità di salvezza per questo mondo.
Mi sono chiesto, non da molto, quale possa mai essere l’antidoto a quello che il Papa stesso, anni fa, ha chiamato la dittatura del relativismo (cioè l’affermazione pregiudiziale e dogmatica secondo la quale non esiste la verità). La risposta forse sta solo in quel cammino di ritorno alla realtà, al termine del quale si incontra il volto reale di un tu, di fronte a cui non possiamo più fingere e che ci obbliga a sorridere, a piangere e ad arrossire.
Nella prefazione al testo più importante del suo amico e filosofo-contadino dell’Ardèche francese Gustave Thibon (1903-2001), Gabriel Marcel (1889-1973) doveva per prima cosa riandare con la memoria a «quel mistero dell’incontro, dal quale il pensiero degli specialisti tende a distogliersi come da tutto ciò che è contingente e […] da tutto ciò che nutre l’anima». Non c’è pensiero e, se la verità consiste nella corrispondenza di quest’ultimo con il reale, non c’è verità senza un incontro, perché solo l’incontro personale riesce a svegliare l’interesse per la conoscenza che, altrimenti, resterebbe un affare noioso e senza senso.
Ricordo un altro prato, nel settembre inoltrato di ormai quasi due anni fa, il Cofton Park di Birmingham, nel centro dell’Inghilterra, su cui circa settantamila persone assistevano alla Messa celebrata dal Papa per la Beatificazione del cardinale John Henry Newman (1801-1890). Anche per Newman la conoscenza era un affare personale e la certezza era qualcosa di soggettivo in senso non individualistico, ma di una riflessione alla ricerca dell’inevitabile e vitale corrispondenza del conosciuto con se stessi.
«Siamo in cerca del Dio vicino. Cerchiamo una fraternità che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l’altro e così aiuta ad andare avanti», ha detto il Papa l’1 giugno alla Scala.
La papamobile bianca del Vaticano fa un giro non completo della spianata di Bresso prima dell’inizio della celebrazione; ci si accalca alle transenne anche al termine della Messa per vederlo passare, ma questa volta il Papa non rifà il giro. Ce ne torniamo lentamente e alla spicciolata verso il centro del settore 36, dove sono rimasti i nostri amici con i loro bambini, anche loro sorridenti e pieni di quella stessa vita gioiosa che hanno ricevuto in dono dai genitori. Mangeranno qualcosa lì sul prato.
Negli ultimi settori si poteva entrare anche a celebrazione avviata e nessuno, a noi che siamo arrivati alle 9 al centro della spianata, ha chiesto di esibire il pass stampato a casa senza nemmeno l’indicazione del nome. Pochi, pochissimi controlli, decisamente di più (ma non moltissimi) i volontari, e comunque, prima di tutto e al termine di tutto, un popolo immenso, enormemente maggiore anche rispetto alle più rosee previsioni, che arriva quando e come vuole per sentirsi ripetere dalla voce del Vicario di Cristo che la vita non è completamente in mano nostra perché siamo fatti per la totalità. Una spontaneità cattolica: alla faccia del relativismo. E del materialismo pansessualista.
Chi è davvero per noi il Papa?

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