«Santi» tra noi
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(Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito)

Alle 16.30 di un pomeriggio afosissimo, chiesa gremita, si celebra il funerale di Carlo, 86 anni. Mentre penso alla sua vita, la mente – non so ancora bene perché – vola a Giuseppe. Sì, proprio a lui: san Giuseppe, lo sposo di Maria.
Falegname anche Carlo, amava profondamente il suo lavoro e con passione e pazienza certosina negli anni ha costruito tanti oggetti di uso quotidiano e tante opere per le chiese del suo paese, che ha contribuito a restaurare o a portare a compimento. Ad abbellire, anche.
E’ questa, mi accorgo, una delle cose che, per prima, mi fa pensare a Giuseppe: la laboriosità, la consapevolezza della dignità del lavoro manuale, la serietà dell’impegno, l’amore alle cose di quaggiù, alle “opere” e, insieme, lo sguardo sempre rivolto al Cielo.
Carlo era così. E mi ricorda che Dio ama tutto di noi e tutto a Lui può essere offerto: la sapienza operosa delle mani, la fatica, l’ingegno, la dedizione alla famiglia e al lavoro, che, insieme alla preghiera, diventano, in ogni istante, piccoli “sì” al Signore che chiama. Pronunciati in modi diversi, ma con uguale intensità.
Un’esistenza, la sua, tutta permeata dalla fede semplice e forte degli umili, attenti ai segni per la scoperta della propria vocazione alla quale aderire fidandosi e affidandosi, e l’assunzione responsabile di compiti che sono “per noi” e cioè a noi affidati, per il compimento pieno della nostra umanità. E così Carlo, falegname, proprio come amava che alle fine ogni sua opera fosse, insieme, utile e bella, per tutta la vita è stato irresistibilmente attratto da ogni manifestazione della bellezza.
Intorno ai dieci anni, mentre faceva il chierichetto, incuriosito dal vecchio harmonium a pedali della sacrestia, resta affascinato dal “suono del sacro”. Studia e cerca di apprendere i segreti dell’organo, strumento che non lascerà più, tanto che nel 2007 viene insignito dal vescovo di Concordia-Pordenone del cavalierato dell’Ordine di S. Silvestro Papa, per i sessant’anni di ininterrotta fedele attività a favore della parrocchia di Cordovado e per il servizio di organista nel duomo.
La musica diventa il filo conduttore, lo spartito dell’intera esistenza: giovane, suona, ma inizia anche a dirigere la Schola Cantorum, poi la Corale Fogolar ed anche il Coro Ana.
Come l’attività artigianale, il coro educa alla vita, perché chiede e insegna disciplina, impegno, rigore ed è esso stesso, in piccolo, la rappresentazione di ogni comunità più grande e della Chiesa, in cui vengono valorizzati i caratteri e le caratteristiche di ciascuno, ma tutti sono impegnati in un’opera comune e tendono all’armonia: ad esprimere “una voce sola”.
L’attrazione per la bellezza sono i rapporti d’amicizia coltivati nel tempo con alcuni pittori e scultori locali e veneti. Carlo collabora con questi artisti, costruendo i telai per i loro quadri o, ad esempio, nella predisposizione della struttura lignea per il grande portale in bronzo della nuova chiesa, a metà degli anni Sessanta.
Altre sono le sue “impronte” lasciate nelle chiese del paese: il coro ligneo dell’abside, il cassone esterno di sostegno all’organo, o i banchi-inginocchiatoio nella vecchia Pieve, realizzati seguendo scrupolosamente il disegno di quelli originari dei primi del Novecento.
L’assunzione come falegname data 8 settembre 1950, ma Carlo aveva cominciato ad “andare a bottega” già dal ’38. Nel pomeriggio guardava e imparava, con l’umiltà di chi da allora in poi mai si è sentito “arrivato”, e con la consapevolezza che si può a propria volta insegnare solo se non si smette mai di lasciarsi educare.
E allora provo a immaginare le sue mani muoversi veloci e sicure in laboratorio, tra assi di legno dalla consistenza e dalle fragranze diverse, e seghe, lime, pialle, chiodi e martello; o librarsi, leggere, a dirigere il coro. E poi le dita, agili e precise, alla tastiera dell’organo. Penso alle sue mani giunte, in preghiera. O, amorevoli, con la moglie, i figli, i nipoti. Le vedo stringere altre mani nei tanti incontri della vita; o alzare gioiose il bicchiere, per un brindisi, dopo un lavoro compiuto insieme. Le immagino nel segno della croce al mattino e poste in croce ora, nella bara. In quel gesto, la sostanza di un cristianesimo integrale: un modo di vivere la fede tutti i momenti, tutti i giorni della vita, dal primo all’ultimo respiro.
La chiesa oggi parla di lui: gli arredi, e poi la musica e il canto, curati nella liturgia funebre come mi è capitato poche volte di sentire. Anche le persone parlano di lui: ne parla il loro raccoglimento, la loro presenza numerosa. Guardo e vedo, in questi bambini, giovani, adulti, anziani che l’hanno conosciuto, come un grande coro e, in miniatura, la Chiesa tutta.
E allora penso a Carlo che, qui ma non più qui, ci svela il segreto custodito da sempre: a guidare le sue mani e tutta la sua vita è stato… un Altro.