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Il popolo bue e la censura vaticana

Fonte:
CulturaCattolica.it

Siamo alle solite. “Loro” gli esperti, quelli che hanno studiato, i critici d’arte della prima e dell’ultima ora, le menti libere, liberate e illuminate. “Gli altri” (e cioè tutti coloro che non sono in linea con il politically correct e con il pensiero unico et dominante et pervasivo) integralisti e indottrinati; ignoranti che parlano a vanvera di ciò che non sanno. Popolino credulone, insomma. Da guardare con sufficienza dall’alto al basso.
Questa però ci mancava. Essere considerati succubi della “censura vaticana a priori”.
E’ così che Concita De Gregorio, in un paginone di Repubblica, oggi liquida “le migliaia di persone che sui blog e sui siti integralisti cattolici scrivono (…) certo per sentito dire, o per aver forse visto su YouTube un frammento dello spettacolo andato in scena ad Avignone”. Per la dottissima, allamodissima, illuminatissima Concita, che – lei sì! – ha assistito, nel 2010, allo spettacolo presso le Officine Marconi della Romanina (periferia sud est della capitale), le migliaia di persone che in vario modo trovano discutibile e/o blasfemo lo spettacolo di Castellucci sono tutte vittime (inconsapevoli perché evidentemente, scontatamente decerebrate) della “censura vaticana a priori”.
E allora – bontà sua – eccolo il pistolotto che per trequarti di paginone (dopo una colonna intera ad ironizzare su chi-parla-per-sentito-dire) propina ai discepoli di Repubblica per spiegare lei, bene, scena per scena e una volta per tutte, il contenuto dell’intero spettacolo, che a questo punto mi verrebbe da dire che, a prescindere, davvero non ha più senso andare a vedere: l’ha raccontato in ogni dettaglio (fetore iperrealista compreso)!
Peccato che la poco informata sia lei. Scrive che la scena dei bambini che lanciano granate sul volto del Cristo di Antonello da Messina “non convinceva il regista ed è stata soppressa”. Forse Concita non sa che Castellucci ha tenuto a specificare più volte che in alcuni teatri, per questioni puramente tecniche, non è stato possibile e non sarà possibile proporre quella parte di spettacolo. Mai ha detto che la scena non lo convince, anzi! Per spiegare al popolino (incolto) il significato simbolico, profondo, psicanalitico, scatologico ed escatologico, dadaista e metafisico della scena, il regista ha specificato che si tratta di “un gesto innocente portato da innocenti”, mentre sedicenti esperti ipotizzano che quei ragazzini sul palcoscenico starebbero a significare come siano altri ad armarli e a far loro compiere gesti che non vorrebbero. Questo abbiamo letto sulla parte di spettacolo soppressa a Roma e a Milano. Questo ed altre cervellotiche corbellerie simili…
Scena non solo innocente ed innocua, dunque, per il regista Castellucci e per i critici à la page, ma addirittura “chiave”, per comprendere appieno il senso (?) della sua pièce. Un vero peccato non poterla proporre ovunque. Altro che “poco convinto”!
Quindi siamo alle solite. Mezze verità e mezze bugie e il pifferaio magico (questa volta al femminile) che suona e canta la sua canzonetta nell’intento di chiamare a teatro più gente possibile. Venghino, signori, venghino…
Ma siccome le parole hanno (ancora) un senso (opinabile, certo, nella melma del relativismo in cui da tempo siamo impantanati – anche, ahimé, all’interno del mondo cattolico – per cui l’opera di Castellucci mò è definita discutibile, mò arte d’avanguardia, mò blasfema, mò messa in scena della Passione e del Calvario, mò sperimentazione, mò, addirittura, “preghiera”…), siccome, dicevo, le parole qualcosa, ancora, vogliono dire, ecco come racconta l’opera la giornalista di Repubblica, che con i suoi occhi l’ha vista e con le sue narici l’ha odorata.
Il figlio, in scena “accudisce il padre con quel misto di amore e rabbia, compassione e collera, pietà e abnegazione che molto bene conosce chiunque abbia mondato gli escrementi di un genitore condannato dalla vecchiaia alla perdita di dignità. (…) Tutto è molto realistico e al contempo insopportabile. Quotidiano e atroce”. Parole sue.
Stamattina alle quattro è morta una mia amica, una mia coetanea. Tumore al cervello. Chi l’ha accudita, chi l’ha seguita in questi ultimi mesi mai l’ha guardata come “condannata alla perdita di dignità”. Non era vecchia ed aveva bisogno di essere aiutata in tutto. Come una bambina. Ma è sempre stata la moglie, la mamma, la figlia, la sorella, la zia, l’amica che era. Per tutti. E il suo lento e consapevole accostarsi alla morte, dignitosissimo, è stato d’esempio per tutti.
Chi l’ha detto, Concita, che i vecchi e i malati sono “condannati alla perdità di dignità”? Lo dice lei, lo dice questo spettacolo, lo dice la kultura che il suo e troppi giornali come il suo spacciano come verità inconfutabile. (E poi uno si chiede come sia possibile che, per una depressione, un uomo salga su un treno, solo come un cane, direzione Pfafficon, venti chilometri da Zurigo, per recarsi alla casa blu di Barzloostrasse, iniettarsi 15 grammi di pentobarbital di sodio, sciolto in 60 centilitri d’acqua; pochi minuti di sonno, coma profondo e… via).
Che idea della vita può dare questo spettacolo, questa giornalista che scrive “tutto è molto realistico e al contempo insopportabile. Quotidiano e atroce”? Se le parole hanno un significato e non servono solo a riempire spazi bianchi, gli aggettivi “insopportabile” ed “atroce” la dicono lunga, anzi corta, perché sbattono la porta in faccia ad ogni spiraglio di umana speranza!
Ma non è finita. Cioè sì, per la giornalista la vicenda si conclude qui. Per lei.
Così infatti scrive: “Fine dello spettacolo. Il quale senza nessun dubbio è un lavoro, che può piacere o non piacere, sul tema della misericordia e della passione, sul mistero doloroso della vita, sulle domande che non hanno risposta, sui figli che pagano le colpe dei padri”.
Con ordine: ammesso che la punteggiatura abbia un senso, la De Gregorio, democratica e tollerante, mette per inciso che l’opera può piacere o anche no, ma nell’ottica del pensiero unico che, per la sua storia, ha inscritto nel DNA, diventa categorica (e non più relativista) quando scrive che “senza nessun dubbio” lo spettacolo è questo, quello e anche quell’altro. L’arcinoto giochetto del “dubito ergo sum ad intermittenza”, nel quale, abilissimi, si muovono i giornalisti d’oggi. Scetticismo ad oltranza quando serve, e diktat quando si chiama a raccolta il popolino pro o contro qualcosa o qualcuno. Pratica talmente diffusa che non servono esempi.
Volesse, poi, cortesemente, l’illuminata, spiegare a noi comuni mortali perché dà per scontato che “le domande non hanno risposta” e come dal “pulire le feci del padre” si passi al “pagare le colpe dei padri” sarebbe un gran bel regalo. Siccome probabilmente l’ex direttrice de l’Unità ritiene che le masse non potrebbero capire (o forse teme che, più intelligenti di quanto non creda, magari non condividerebbero…), glissa e va oltre.
Va direttamente, e senza scorciatoie, alla “censura vaticana a priori” che, si sa, di questi tempi è una frase che si può appiccicare ovunque, perché accontenta tutti. Persino molti sedicenti cattolici che, per un inspiegabile senso di inferiorità e per sentirsi “come gli altri”, in questi giorni impazzano impazziti nella rete, proponendo, a giustificazione della pièce, le ipotesi di lettura più astruse, dimostrando non solo di non saper discernere ciò che è “bello” da ciò che bellezza (nel senso più profondo del termine) non è, ma anche di non avere nemmeno più “naso”. Letteralmente.

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