L’elmo, l’ancora, la lampada
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“Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Tendere la mano significa sperare per arrivare, in un secondo momento, ad amare”. Dio ha voluto la mano non per uccidere, ma per curare e per aiutare a vivere. “Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare uno strumento di dialogo. Essa può fare fiorire la speranza, soprattutto quando l’intelligenza balbetta e il cuore inciampa”. Così si è espresso il Papa nel suo viaggio apostolico in Benin, un piccolo paese dell’Africa, che si affaccia sul golfo di Guinea, nella regione tristemente nota come la Costa degli Schiavi. Povero di risorse, uno fra i maggiori produttori di cotone, è un Paese in pace, con una tradizione democratica. Da qui Benedetto XVI ha parlato non solo all’Africa ma a tutto il mondo. Le sue parole, infatti, in questo tempo di crisi e di sfiducia generale, sono state un monito a rialzarsi e ad avere fiducia, non solo per il continente africano. Abbiamo tutti bisogno di speranza, di mani che si tendono e tessono trame di fraternità. L’abbiamo visto anche recentemente. I volontari che sono intervenuti in soccorso agli alluvionati in Liguria, hanno lavorato per “poter affermare che c’è una speranza per tutti”, hanno mostrato una fraternità costruttiva. Molti di loro erano giovani. Hanno incontrato il Presidente Napolitano che si è rivolto a loro così: “Da soli non si fa nulla. Organizzatevi - se mi permettete - non soltanto per protestare contro quello che non va nella scuola, contro quello che non va nell'Università, a mano a mano che ci arrivate. Organizzatevi per fare delle proposte, per sollecitare delle scelte, per indicare delle necessità che sono vitali per lo sviluppo del paese”. La gratuità costruisce più di tanti discorsi e convince. “La disperazione è individualistica, ha detto il Papa incontrando i membri del governo del Benin e il Corpo Diplomatico, la speranza è comunione”. Sappiamo quanto sia facile cadere nella desolazione che annebbia lo sguardo e chiude le porte del cuore agli altri. Il realismo cristiano è sorprendente: l’uomo, ferito dal peccato originale, “vuole avere se stesso e non donare la vita. Solo con l’amore e la conoscenza di un Dio che ci ama osiamo donarci perché sappiamo che ci guadagniamo”. Per sperare occorre aver ricevuto una grande Grazia, diceva Peguy. Cioè la certezza della fede. La speranza è un dono, non una capacità, ed è ben oltre l’ottimismo. Tre simboli, ha detto il Papa, descrivono la speranza per il cristiano: l’elmo, che serve a “proteggere dallo scoraggiamento”; l’ancora, che garantisce sicuro appoggio; la lampada, che “permette di attendere l’aurora di un nuovo giorno”. Dio che è “nel presente e nel futuro, è il luogo della speranza”. Benedetto XVI ha definito l’Africa un polmone spirituale per un’umanità in crisi di fede e di speranza. È “la freschezza del sì alla vita, del senso religioso, della realtà nella sua totalità con Dio: non la riduzione al positivismo che restringe la nostra vita, la fa un po’ arida e spegne la speranza”. Abbiamo bisogno di rialzarci e liberarci dal peso di una mentalità ideologica che opprime la creatività, l’intrapresa e limita lo sguardo al tornaconto, all’immediatamente utile e spendibile. Questo è il contributo della comunità cristiana. Mentre offre mani che sollevano, indica un punto ideale che rompe con una visione negativa e confusa della vita, e muove la ragione ad aprirsi alla provocazione della realtà.