Dove porta la strada degli “indignados”?
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La colomba rifletté un momento e poi disse: “Forse manca una sola persona perché tutto il mondo piombi nella pace!”. Il bene, come il mare, è fatto di tante piccole gocce. Ognuno faccia la sua goccia di bene... e avremo un mare di bene!

Non mi lascia indifferente ciò che è accaduto a Roma, ieri. Mi interroga.
Mi spaventa sentir gridare “vogliamo un autunno europeo come la primavera araba”. Mi spaventa perché la “primavera” annunciata ha dato pochi frutti e nessun frutto buono. Mi spaventa perché l’autunno è preludio dell’inverno, e non abbiamo bisogno di un’Europa al buio. Di un’Europa congelata: senz’anima e senza vita.
Eppure, durante la manifestazione degli indignados, segnali preoccupanti di un autunno come anticipo di inverno e cioè di buio e di morte, ieri, a Roma, ce n’eran tanti che bisogna essere ciechi per non vederli. Tanti da prendere paura.
Guardavo le immagini di piazza S. Giovanni ed ho provato dolore. In una capitale sfregiata, ho visto una piazza fantasma. Un campo di battaglia. Guardavo e ascoltavo, e così ho sentito alcuni numeri, i primi: sessanta feriti, di cui tre gravi. Una dozzina di arresti a fronte di circa un migliaio di facinorosi.
Ieri, sconcertata, tenevo gli occhi fissi alla tivù. Guerriglia. Sanpietrini lanciati a casaccio, segnali stradali divelti, auto e palazzi bruciati, vetrine sfondate, assalti alle camionette delle forze dell’ordine e a una caserma; un blindato incendiato (…e quei due poveretti che ce l’hanno fatta ad uscire, altrimenti – mica siamo nei videogames dove muori per finta e poi ti rialzi perché tanto hai una vita di riserva! – altrimenti sarebbero arsi vivi…). Profanata anche la chiesa dei santi Marcellino e Pietro. La statua della Madonna e un crocefisso, portati in strada, frantumati sotto gli occhi di tutti.
Lo so, l’hanno detto e ripetuto. Ieri in tutto il mondo ci sono stati cortei di protesta. Centinaia di migliaia di persone hanno sfilato lungo le vie. Pacificamente in piazza a manifestare. Lo so. Solo qui i black bloc hanno sfogato non so capire che cosa.
Forse dovrei dire meno male. Meno male che è accaduto solo qui.
Meno male che la maggioranza era pacifica.
Meno male che questa volta chi manifestava pacificamente pare abbia cercato di fermare i violenti.
Meno male che la politica ha preso le distanze ed ha espresso un duro giudizio rispetto a ciò che è accaduto (… “e però gli indignados hanno le loro buone ragioni…”, si sono affrettati a sottolineare tutti, ma proprio tutti, in doveroso ossequio al politicamente corretto. Che non sia mai...).
Meno male che anche stavolta non c’è scappato il morto…
Eppure… Eppure c’è un’amarezza che è come un tarlo e non mi lascia tranquilla. E così quel “meno male”, scusate, proprio non riesco né a dirlo, né a scriverlo.
Mi inquieta l’uso della rete che si è fatto e si fa in queste circostanze: dalla rete il tam tam che spinge a scendere in piazza perché l’indignazione sia globale. In rete anche messaggi e slogan che più o meno esplicitamente incitavano alla violenza: “Insurrezione! Combattere!” (…cito solo questo, ma chiunque può fare le sue ricerche. E non basta dire, facendo spallucce, che la mamma dei cretini è sempre incinta: troppo facile!).
Mi inquieta vedere, branditi durante la manifestazione, cellulari e web-cam, e tutti che si improvvisano giornalisti. Lo so come vanno queste storie. Dalla piazza di Roma alla piazza di internet il passo è brevissimo e – scommettiamo? – già staranno circolando le inquadrature di uomini in divisa che pestano, e ci sarà già chi mostra che ad attaccare son state le forze dell’ordine e che il tizio incappucciato, felpa nera e casco, con la bomba carta in mano in fondo mica faceva nulla di male: era solo – giustamente – indignato…
Mi inquieta, forse ancora più della violenza cieca e gratuita che ho visto, sentire che centinaia di migliaia di persone nel mondo, ieri, hanno organizzato ovunque cortei. “Indignate” manifestavano – cito quel che da più parti ho sentito – “per costruire un futuro migliore”.
Dove porta la strada degli “indignados”?
I black bloc, violenti, distruggono e non sanno costruire. Il futuro “migliore” che vogliono è il campo di battaglia di piazza san Giovanni.
Cosa e come “costruiscono” gli altri, tutti, mi chiedo.
Chi marcia “pacificamente” il più delle volte torna a casa… pacifico com’era partito. E cioè riprende, magari brontolando, il quieto tran tran della sua vita. Una camminata condivisa, ieri, l’ebbrezza dello stare insieme “contro” qualcuno o qualcosa, slogan gridati, cartelli e bandiere, paura, magari, adrenalina alle stelle e poi ognuno alla sua quieta vita di sempre. E la solita delega. Voglio un futuro migliore. Che lo costruisca qualcun altro, però. Io, al massimo, so indignarmi, scendere in piazza urlare slogan e sventolare bandiere. Poi, home sweet home e pantofole calde, s’il vous plaît.
Penso a ciò che hanno visto i miei occhi, nei cortei di Roma e d’Europa, e penso che anche madre Teresa, a Calcutta, poteva fare l’indignata, di fronte ai vecchi e ai bambini lasciati morire per strada come bestie. Aveva carisma, madre Teresa. Poteva organizzare cortei pacifici. E aspettare che altri facessero. Che altri si sporcassero le mani e prendessero in braccio, e lavassero, imboccassero, medicassero, tenessero la mano a vecchi e bambini deturpati dalla lebbra.
E invece no. Niente slogan e niente cortei. Piccola matita nelle mani di Dio, in nome Suo silenziosamente ha agito e il suo fare, il suo “modo di fare” è stato contagioso e – quello sì! – ha mostrato la possibilità di un mondo più umano, e dunque migliore.
Non mi lascia indifferente ciò che è accaduto a Roma, ieri. Mi interroga.
Avverto, innanzitutto rivolto a me, il richiamo ad un maggior senso di responsabilità di fronte ai giovani che, come madre e come insegnante, ho il compito di aiutare a crescere.
L’indignazione è una strada senza uscita. Non basta. Anche muoversi “contro” non serve. Distrugge. E invece, ora più di sempre, c’è bisogno di costruire.
Piazza san Giovanni deve aiutarci a comprendere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e forse, tutti, dobbiamo proprio ripartire da lì, da quelle macerie. Ma con lo sguardo positivo e propositivo di chi sa di avere un compito e che il suo compito, qualunque sia, ha una caratteristica che lo rende speciale. Non può essere delegato.
“Ho pensato, Signore, a quel povero mattone interrato nel buio alla base del grande edificio. Nessuno lo vede ma lui fa il suo lavoro e altri hanno bisogno di lui. Signore, non conta che io sia in cima alla casa o nelle fondamenta, purché io sia fedele, al mio posto, nella tua costruzione”. (Michel Quoist)