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Il dialogo con l’islam e i suoi difensori

Fonte:
CulturaCattolica.it

Proseguiamo nella nostra escursione dentro alla religione islamica per tentare, sempre fin dove ci riesco, di capire se e come è possibile il dialogo con l’Islam. Questa tentativo trae origine dalla realtà di questi tempi riguardo all’aggressività del mondo islamico e alla rassegnazione dei popoli e dei governi europei, ed è uno sforzo rivolto ai fedeli cattolici della nostra Italia, perché parlare di queste cose al “Cortile dei Gentili” è certo inutile a causa della prevalente cultura europea, che da anni ha ormai abbandonato e cancellato per legge le radici cristiane della nostra Europa. Non mi rivolgo, quindi, ai sedicenti laici atei o agnostici, perché loro non vedono l’ora di cancellare la religione cattolica dall’Europa, e l’aggressività musulmana per loro è una benedizione della storia, è l’aiuto finalmente arrivato a completare il ciclo iniziato dalla Riforma Luterana e proseguito con la rivoluzione francese.

Prima avvertenza, per parlare di dialogo con l’Islam bisogna conoscere l’Islam!
Molti dei tentativi che oggi vengono fatti in radio, in televisione, sulla stampa e sul web, sono poco produttivi per costruire un dialogo con questa religione e con i suoi fedeli, perché molti dei giornalisti, sociologi, uomini di Chiesa e uomini di partito hanno un’ignoranza tale dell’Islam solo pari alla loro supponente saccenza.

Ciò premesso è opportuno ribadire un altro concetto molto semplice: prima di tutto bisogna essere certi che l’interlocutore voglia il dialogo, voglia mettere a disposizione la sua buona fede per approfondire insieme i temi che attanagliano il futuro dell’umanità, non solo dal nostro egoistico punto di vista. E su che cosa si dovrebbe basare questo tentativo di conoscenza reciproca? Sull’idea di uomo e di società che vorremmo costruire per il futuro nostro e delle generazioni che verranno.

Perché una cosa è certa, il terrorismo cosiddetto fondamentalista, non è altro che una applicazione corretta e coerente e intransigente degli insegnamenti coranici, soprattutto quelli medinesi per gli esperti di esegesi coranica.

Siamo noi a sbagliare, perché riteniamo applicabili le nostre categorie sociologiche, filosofiche e religiose all’Islam! Niente di più fuorviante è conseguente a questa scelta.

Le analogie, cui noi siamo abituati, per utilizzare nei nostri modelli le interpretazioni di altre realtà è errato. Per capire se e in che modo è possibile un dialogo è necessario mettersi nella testa del musulmano, o se vogliamo essere più precisi dell’islamista.

C’è un eccesso di razionalismo nel nostro approccio ai mondi e alle culture altre dalle nostre.
Parlando di Islam voglio fare degli esempi, per illustrare quanto deleterio sia questo modo di ragionare.
• La tendenza dell’occidentale (e di tanti preti e suore e intellettuali cattolici) è di credere che Allah sia l’equivalente del Dio cristiano: nulla di più sbagliato. Allah non è Padre, non è vicino al suo popolo. È lontano e inaccessibile.
• Che il rapporto con la religione si basi sul concetto cristiano della separazione fra Stato e Chiesa (“Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”): nulla di più sbagliato, per l’Islam non ci può essere separazione fra politica e religione, è tutt’uno e le rivolte nei paesi nordafricani lo dimostrano.
• Che Maometto sia il corrispondente di Gesù: qui rasentiamo la bestemmia, sia per gli islamici che per i cristiani che in Gesù riconoscono Dio stesso fatto carne (Vangelo Giovanni cap. 1).
• Che la moschea sia la loro chiesa: sbagliatissimo, semmai è l’oratorio se proprio dobbiamo giocare ai paragoni. Dalle moschee partono a ogni venerdì di preghiera anche le proteste, le violenze e le rivolte.
• Che l’imam sia il prete, l’ulema il teologo, il sufi un monaco, e così via: tutto sbagliato.

Eppure così pensano i più, a causa della mania di ragionare per analogie.

Nello studio e nella comprensione delle altrui civiltà serve invece la doppia capacità di spogliarsi della propria cultura e mentalità, completamente, per rivestirsi dell’immedesimazione nella cultura altrui: è il passaggio che consente, per esempio, allo studioso di teologia di diventare teologo, perché potrà poi confrontare davvero in modo corretto le diverse esperienze religiose, cogliendone la peculiarità e le debolezze.
Parliamo ora di Islam. In queste poche righe affronterò un solo argomento, delle migliaia che sarebbero importanti, rinviando ad altri articoli altri due temi che a me sembrano strategici per capirlo questo Islam.:
1. l’essenza dell’Islam e il suo fine escatologico,
2. la compatibilità tra l’Islam e la struttura sociale democratica,
3. l’esistenza del cosiddetto Islam moderato.

Oggi, parliamo del primo problema. “Non c’è altro Islam che l’Islam. Allah è l’unico Dio e Maometto il suo Inviato”: questa professione di fede è uno dei cosiddetti cinque pilastri della religione musulmana; in arabo suona in modo un po’ cacofonico, va pronunciata ogni giorno e basta recitarla ad alta voce, in arabo, davanti a testimoni musulmani, per appartenere irreversibilmente all’Islam.
Una specie di battesimo, perpetuando il gioco dell’analogia. In esso è già contenuto in nuce tutto il pensiero islamico e da esso deriva anche lo scopo finale dell’Islam in vista del giudizio universale: quando tutto il mondo sarà sottoposto alla sharìa, la legge coranica, allora Gesù (grande profeta ma non divino) e il Mahdi (un alter ego di Maometto che ne porterà nome e sembianze) prepareranno la manifestazione di Allah e il suo giudizio.
Ciò potrà avvenire quando tutto il mondo sarà sottoposto alla sharìa, cioè quando gli infedeli saranno stati eliminati e saranno rimasti solo i membri della Umma (la comunità dei credenti nell’Islam) e i Dhimmi (cristiani ed ebrei; “Gente del Libro”, sottomessi al Corano e tributari dell’obolo obbligatorio alla moschea, ma privatamente liberi di pregare a modo loro).
Ogni buon musulmano è chiamato ad impegnarsi per creare queste condizioni e questo “impegno sulla via del Corano”. Si definisce Jihad, che quindi non significa “guerra santa” come dicono molti islamologi improvvisati, ma ha un valore assai più elevato, giacché lo scopo della islamizzazione finale dell’umanità è la sua salvezza e può essere perseguito anche senza combattere cruentamente. C’è solo da precisare che le applicazioni concrete del comandamento jihadista nei secoli si sono realizzate o con le conversioni forzate o con le guerre di conquista.

È assolutamente indispensabile, per chi vuole avvicinarsi alla conoscenza dell’Islam, la lettura di almeno due libretti, giusto per avere qualche informazione di prima mano.

Il primo è di Maxim Rodinson, islamologo francese morto una decina di anni fa, scrisse uno studio approfondito e con incursioni anche psicanalitiche sull’uomo Maometto, il profeta. Titolo: Maometto, edito e ristampato da Einaudi Tascabili.

L’altro è recente, ed è di una giornalista africana di religione musulmana emigrata anni fa in Canada. È un canto di rabbia e di amore per l’Islam. Un canto di rabbia perché Irshad Manji si chiede: quando abbiamo smesso di pensare? Risalendo all’analisi del blocco filosofico del pensiero musulmano, indietro fino ad Avicenna, e ad Averroé nel Medioevo occidentale. Purtroppo è storia, dopo questi due grandissimi pensatori musulmani, il primo di origine persiana, non arabo quindi, e il secondo nato in Spagna, sembra che sul pensiero musulmano sia scesa una cappa di piombo. Un canto d’amore, perché Irshad soffre per questo blocco filosofico e vorrebbe tanto che l’Islam ritornasse ad essere quella fucina feconda di scoperte scientifiche e di sapienza come ai bei tempi di Federico II di Svevia in Sicilia.
Titolo: Quando abbiamo smesso di pensare?, edito da Guanda nella collana “le fenici rosse”.

E allora? Cosa pensare di tutto il grandaffare degli intellettuali cattolici, religiosi e laici, presi dalla fregola ossessiva del dialogo con l’Islam? Del “volemose ben” a tutti i costi, anche rinunciando alla propria fede cattolica se fosse possibile?
Una prima risposta l’ha fornita l’altro giorno, come al solito, Papa Benedetto XVI commemorando le migliaia di morti dell’attentato dell’undici settembre 2001, scrivendo all’arcivescovo di New York, Timothy Dolan: “La tragedia di quel giorno - si legge nella lettera inviata dal Pontefice - è aggravata dalla pretesa degli attentatori di agire in nome di Dio”. “Ancora una volta - specifica il Papa -, deve essere inequivocabilmente affermato che nessuna circostanza può mai giustificare atti di terrorismo”. “Ogni vita umana - si legge nel messaggio - è preziosa agli occhi di Dio e non va risparmiato alcuno sforzo nel tentativo di promuovere nel mondo un genuino rispetto per i diritti inalienabili e la dignità delle persone e dei popoli dovunque essi siano.”

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