Un libro...
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(Popieluszko - “Non si può uccidere la speranza”, a cura di A. Guglielmi, Itaca)

Un libro. Se devo scegliere cosa “portare a casa” dalla visita al Meeting, quest’anno, ciò che per primo mi viene in mente è questo. Un libro.
Un libro segnato, consumato, con le pagine ingiallite e la copertina staccata. Un libro, anzi, IL LIBRO: il Vangelo che Jozef Dabrowski, presidente nazionale dei ferrovieri cattolici polacchi, ha portato a Rimini, dalla Polonia, perché l’ha sempre con sé. Trent’anni di compagnia. Una compagnia iniziata quando, a seguito del colpo di stato del 13 dicembre 1981 e della promulgazione della legge marziale, finisce per cinque mesi in carcere insieme ad altri oppositori del regime e quel carcere inaspettatamente diventa dono, un regalo per la sua conversione. Ma l’ha capito dopo.
“Cercavo scuse per non pregare”, ha raccontato all’incontro Giovanni Paolo II: quell’uomo afferrato da Cristo, cui è intervenuto anche il Vescovo di S. Marino e Montefeltro, mons. Luigi Negri. “Mi pareva di non trovare mai il tempo”. E invece il Signore, nei modi che Lui solo conosce, gli chiedeva di avvicinarsi, di imparare ad ascoltarlo.
“In carcere ho preso in mano il Vangelo ed è diventato il pane della mia vita”. In cella, 24 ore di niente, il tempo non passa mai ed è solo attesa. Invece in prigione Dabrowski ha scoperto la ricchezza della meditazione e della preghiera. Ha letto per la prima volta il Vangelo dall’inizio all’ultima pagina ed ha capito che “con lui non è tempo perso”. E’ ascolto ed è un incontro che cambia la vita, perché Cristo ti afferra anche così: mentre leggi il Vangelo, nella cella di una prigionia che non meriti.
“All’inizio mi lamentavo e sostenevo che il carcere era un’ingiustizia, era inaccettabile. Uscito di prigione, al primo interrogatorio ho detto alla polizia segreta: ‘Vi ringrazio di cuore per questi cinque mesi regalati, perché mi hanno permesso di stare più vicino a Cristo’. Pensavano fossi uscito di testa!”.
In effetti sì: Dabrowski un po’ “uscito di testa” lo era davvero. Uscito dalla sua, di testa, perché, “afferrato da Cristo”, da allora in poi ha cercato di vedere la realtà con gli occhi di quell’Uomo che aveva incontrato nel Vangelo e ciò gli ha permesso di vincere quella che ha definito “la più dura battaglia della vita”: non lasciarsi prendere dalla spirale di odio che lo circondava. “Pregavo perché l’odio non avesse la meglio”, racconta.
E’accaduto. Non solo nel suo volto e nelle sue parole non c’è traccia d’odio e non si avverte la ferita di cinque mesi di carcere ingiusto, ma per rispondere alla sollecitazione di Karol Wojtyła, quell’uomo straordinario incontrato per la prima volta quando ancora era arcivescovo di Cracovia, nel 1973, con il quale era nata da subito un’amicizia forte, che durerà negli anni, ha preso alla lettera l’esortazione apostolica Christifideles laici che, firmata nel 1988, invitava i cattolici a non abdicare alle loro responsabilità storiche.
E così, ancora “quel libro”, il Vangelo, sempre con sé, e la compagnia, fedele e concretissima di Cristo. Ha gustato “la bellezza dell’Eucaristia” e, per quattro anni deputato del Parlamento polacco, ha iniziato a frequentare assiduamente la Cappella del Santissimo. “Avevo bisogno di sostare a lungo lì davanti, in ginocchio, prima delle decisioni da prendere”, racconta. E la sua testimonianza al meeting diventa provocazione. “Cosa significa per noi, uomini del terzo millennio, seguire Cristo? Per essere testimoni di Cristo bisogna mettersi alla sua scuola, penetrare tutto il suo mistero. Non si può mostrare Cristo agli altri senza stare in ginocchio davanti al Signore. La gente che ha responsabilità pubbliche sta troppo poco in ginocchio davanti al Santissimo! (…) Bisogna educare e preparare la gente a confrontare con la fede tutte le situazioni della vita quotidiana: in famiglia, nella società, nella politica. Occorre pregare, ed essere attenti al magistero della Chiesa, per non farsi sottomettere dalla mentalità del mondo, dei mass media, del potere…”.
Ecco, allora, cosa porto a casa con me, dal meeting, quest’anno. Un libro, un richiamo all’umiltà, e gesti semplici. Un po’ di tempo al giorno, in ginocchio, ad invocare “Veni, Sancte Spiritus!”, e dita che pare tamburellino su un tavolo, ed è invece preghiera.
Dopo l’uscita dal carcere, licenziato dal primo posto di lavoro, per rendere ‘innocuo’ Dabrowski l’avevano relegato in una stanza dove, dalle sette del mattino alle tre del pomeriggio, non aveva nulla da fare. Anche questa umiliazione non sfocia in rabbia, ma è accolta come occasione per guardare dentro il cuore. E’ allora che gli torna in mente Karol Wojtyła, che l’ha aiutato a scoprire tanti modi per stare in relazione con Dio. Uno tra tutti: la recita del rosario. Con un ticchettio di dita sul tavolo che poteva essere scambiato per nervosismo, scambiato per gioco, ed era invece la conta delle decine dell’Ave o Maria…
“All’inizio non capivo il motto del Santo Padre”, spiega. “Non capivo perché ‘Totus Tuus’. Sentivo più importante il rapporto con Gesù che con Maria…”. Poi, nella sequela fedele a quel testimone straordinario che è stato l’amico polacco, ha compreso. Ha compreso il senso del rosario. Ha compreso che aiuta ad imparare a guardare Gesù con gli occhi di Sua Madre; ad amare Gesù come lo ama Sua Madre. Ha compreso che, con Maria, si può stare più vicini a Suo Figlio.
E così, da Rimini, porto a casa il ricordo, nitido, del Vangelo che teneva tra le mani Jozef Dabrowski: quest’uomo con gli occhi buoni e due baffoni alla Lech Wałesa. Un libro consumato perché, letto e riletto, è entrato nella sua vita e l’ha rinnovata.
Lo porto con me perché, camminando tra i padiglioni del Meeting, ho capito. E’ stato quel libro, il Vangelo, a rendere l’esistenza di Dabrowski un’immensa certezza! Afferrato da Cristo e grazie alla compagnia di Sua Madre, si è sentito libero, e vivo, e amato anche in carcere. Anche nell’apparente non senso di due anni di inattività forzata. Libero e certo.
Mi sono avvicinata a lui, gli ho stretto la mano e l’ho guardato negli occhi. La letizia del suo volto non mente ed è promessa per tutti coloro che l’hanno incontrato. Sento, grata, che mi posso fidare.