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Il Komandante e il male di vivere

Autore:
Saro, Luisella
Fonte:
CulturaCattolica.it
«Approfittate di questi giorni per conoscere meglio Cristo e avere la certezza che, radicati in Lui, il vostro entusiasmo e la vostra allegria, i vostri desideri di andare oltre, di raggiungere ciò che è più elevato, fino a Dio, hanno sempre un futuro certo, perché la vita in pienezza dimora già nel vostro essere. Fatela crescere con la grazia divina, generosamente e senza mediocrità, prendendo in considerazione seriamente la meta della santità» [Benedetto XVI, Madrid, 18 agosto 2012]. Non c'è migliore commento...

E’ una cosa seria, il ‘male di vivere’. Serissima. E non risparmia nessuno: prima o poi bussa alla porta di tutti. Così seria che non c’è autore della letteratura, pittore, artista che, nei secoli, non sia partito dal suo o dall’altrui ‘male di vivere’ e, in maniera più o meno esplicita, nelle sue opere non ne abbia fatto riferimento.
E’ una cosa seria, il ‘male di vivere’. Così seria che va accettato, accolto, guardato in faccia con umiltà. E con timore e tremore, perché è con-naturato all’essenza dell’uomo: ferita sempre aperta, a ricordarci che, finiti, aneliamo all’infinito; creature, proviamo struggente nostalgia del Creatore; in-soddisfatti delle risposte parziali nelle quali ci imbattiamo, cerchiamo senza sosta non “una” felicità, ma “la” felicità. L’unica e la sola capace di corrispondere ai desideri più veri del cuore.
Ho così rispetto per il ‘male di vivere’ che incontro nei poeti, negli scrittori, negli artisti che amo e, concretissimo, nei volti – tutti – degli adolescenti che incontro a scuola ogni giorno, dei miei famigliari, degli amici, o nei fatti di cronaca, che mi ero imposta il silenzio. Mi ero ripromessa che non mi sarei lasciata imbrigliare e imbrogliare dal “caso Vasco Rossi” e dal tam – tam dei bollettini medici emanati dal… balcone di casa sua.
Benché dunque cercassi di starmene alla larga, è capitato che, senza volerlo, vi abbia sbattuto il naso (anzi, occhi e orecchie). E’ successo che, mentre stavo caricando la lavastoviglie, alla trasmissione Bikini, in onda su Canale 5, una sera si pensano bene di inquadrate una folla di circa duecento persone stazionata da ore – così dicono – davanti alla villa di Vasco. Alla domanda del giornalista che chiede “perché?”, sento che un giovane, voce sommessa, risponde: “Vivo per lui. Se si ferma lui, mi fermo io”. Un altro: “La mia vita senza Vasco è una vita senza senso”. Un altro: “Per me è come un ‘guru’. Magari dice le stesse cose che direbbe mio padre, ma mio padre non lo seguo. Vasco sì”.
C’è qualcosa di inquietante, in queste affermazioni, e siccome nel servizio il giornalista rassicura i fans che il Komandante si farà vedere forse sì o forse no, ma garantisce il contatto con il mondo tramite Facebook, mi dico che forse è il caso di approfondire.
Volutamente non sono iscritta a Facebook (aperta parentesi. Chi fosse in pensiero per me, stia tranquillo: mi sento comunque perfettamente ‘connessa’ q.b. – quanto basta – con la realtà e con gli esseri umani a cui tengo. Chiusa parentesi); non essendo iscritta, decido di recarmi da un’amica per vedere gli ingredienti delle quotidiane pillole di saggezza che – l’ho scoperto dai giornali – il Vasco nazionale offre generosamente in rete un’ora sì e l’ora dopo anche. L’amica, paziente, digita il nome del ‘guru’ e, con lei, scopro che, quella del Komandante, è tutta un’esternazione (per la verità anche un tantinello monotona) su… quel che gli passa (letteralmente) per la testa: dall’alcol alla droga (con i dovuti ‘distinguo’, mi raccomando…); dai controlli sulle strade visti come ‘caccia alle streghe’, agli ‘(s)ragionamenti’, al ‘no al proibizionismo!’, agli slogan demenziali “Meglio sfigati che Giovanardi”… Il tutto, si capisce, condito da autoriprese con web-cam, messaggi rassicuranti per i fans e stilettate a destra e a manca destinate a chi non la pensa esattamente come lui che – ricordiamolo – è e resta il Komandante.
Sotto, i commenti dei fans. Eccone alcuni.
“Bravo prof. Rossi!” (Barbara de Simone) “WOW…che bibbia!” (Valeria Stati) “Ti adoro, Vasco! Sei una forza per me” (Monica Mo) “Vasco sindaco” (Matteo Ravizzola) “Vasco Capo del Governo” (Sara Fino) “Parole sante Komandante” (Matteo Casale)… eccetera.
No comment sui commenti. Tempo e spazio sprecati.
Passo oltre e butto allora un occhio ai giorni e alle ore in cui Vasco, come da una tribuna, lancia i suoi proclami, poi faccio due conti. Tra scrivere, e leggere i commenti che gli inviano, penso che, bruciate davanti alla tastiera, se ne andranno delle mezze giornate abbondanti e allora mi accorgo che è l’horror vacui, questa sua paura del vuoto e del silenzio ad inquietarmi. Questo suo bisogno compulsivo di parole e di “pieno” (che è lo stesso bisogno – ahimè – di tanti come lui: connessi-no-stop).
Penso al cocktail di antidepressivi, psicofarmaci, ansiolitici che, riportato da tutti i giornali, Vasco ha definito “ciò che mi ha salvato”. Ho letto troppi autori, a cavallo tra Otto e Novecento e sono sufficientemente attenta ai fatti di cronaca nera, per non comprendere che i “cocktail” – qualsiasi sia la loro natura – son buoni solo ad assopire l’animo, a stordire la ragione, ad annebbiare le domande del cuore. Nessuno ha trovato in un bicchiere o in una “dose” lo sbocco positivo al suo ‘male di vivere’!
Penso ad un’altra sua frase che ho letto, tamburellante, su Facebook: “La mia religione è il Vascolicesimo”. Provo tristezza. Anche una vita di soldi e di successo può, ad un tratto, quando meno te l’aspetti, farti avvertire un senso di impotenza. Càpita. Vasco non è il primo, né sarà l’ultimo. Càpita. E lui che fa? Anziché domandarsi cosa gli “manca”; anziché chiedersi perché non gli bastano le migliaia di copie di dischi venduti, per essere felice, felice pienamente, si fa prendere dal delirio di onnipotenza, sponsorizza la sua religione (?!?) e avvisa i fans: “Faccio 2-3 uscite al giorno e do anche la benedizione” (Il Resto del Carlino del 16 agosto).
Penso ora al ‘male di vivere’ dei ragazzi che incontro a scuola e fuori e mi chiedo se non meritino di più, rispetto al Vascolicesimo e/o alla benedizione impartita dal Komandante due-tre volte al giorno dal balcone di casa sua…
Era il 1983 e ricordo i miei coetanei ripetere con lui, a squarciagola “Voglio una vita spericolata / voglio una vita come quelle dei film”. Son passati quasi trent’anni ed ora, da adulta, mi sento di dire che, invece, la vera sfida era ed è un’altra: è aiutare i giovani a comprendere la cosa forse più difficile, e cioè che i film sono una cosa, la vita è un’altra. E che di Steve McQueen ce n’è uno: gli altri cerchino di vivere al meglio la loro, di vita. Che è unica e irripetibile.
Ed anche quando uno, addosso, ha il ‘male di vivere’ e si sente, come Ungaretti: “Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata”, anche in questo caso, compito degli adulti è dire che sì, può capitare di sentirsi proprio “così”, ma ricordare anche “SONO UNA CREATURA”, come recita il titolo del testo poetico di questo autore straordinario che durante la prima guerra mondiale, in trincea, quotidianamente ha fatto i conti con il ‘male di vivere’. L’ha guardato negli occhi; non ha cercato scorciatoie. E si è “salvato”. Lui sì, si è salvato. (Chi lo desidera, rilegga Veglia…)
Ai ragazzi va detto: “Nonostante tutto: nonostante in questo momento ti senta così, come una pietra, abbi la certezza che il tuo cuore è di carne e sangue. Se sei – e lo sei! – una creatura, magari non lo vedi e non lo senti, ora, ma sappi che c’è un Creatore che ti ha amato da sempre, ti ha voluto ed ha scelto te. Non sei nato ‘per caso’! La tua vita ha un senso e, tu, un compito da svolgere. Indelegabile”.
Questo, da adulti, dobbiamo loro: punti fermi e la certezza di una vita degna di essere vissuta. Non la favoletta o l’illusione di una vita “da film”!
Ai giovani, infine, anziché la presunzione tronfia e bugiarda, puntualmente contraddetta dalla realtà, di essere autosufficienti e bastanti a se stessi, chiusi nel proprio egoismo e indifferenti a tutto (“…voglio una vita che se ne frega / che se ne frega di tutto sì…”), va insegnata l’umiltà della domanda e il coraggio, quando occorre, di chiedere aiuto.

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)


Post scriptum per Vasco. Prova ad alzare gli occhi dal cocktail, dalla tastiera e dal mondo virtuale di Facebook e ascolta “La vita è un dono” di Renato Zero! Oppure apri la porta ed esci di casa. Ma non come “il Komandante Vasco”; come un “signor Rossi” qualsiasi. Non cercare la clac. Non cercare le luci del palco. Guardati intorno, semplicemente. Incontrerai – ne sono certa – qualcuno pronto a donarti il girasole impazzito di luce. Esiste! Accettalo e trapiantalo nel tuo terreno bruciato dal salino. Allora sì “…vedrai che vita vedrai”…

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