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Confessione sulla confessione...

Autore:
Saro, Luisella
Fonte:
CulturaCattolica.it
“E’ la Bellezza che ci guarda ed è per sostenere il Suo sguardo che noi cambiamo”.

Sono andata a confessarmi, stamattina.
C’è stato un periodo, anni fa, in cui mi confessavo di rado. Credevo che l’esame di coscienza serale, l’Atto di dolore, quattro chiacchiere con Dio, fatte col cuore, potessero bastare. Meglio: potessero bastarmi.
Non era così. Mi rimaneva, dentro, un “non so che”, un’insoddisfazione. L’amaro in bocca del ‘non compiuto’. Mancava, mi mancava, qualcosa.
Siccome la vita non è teorie ma è un cammino fatto di esperienze, credo che l’esperienza di figlia e di mamma mi abbia aiutato, piano piano, a comprendere cosa mi mancasse.
Ho scritto “figlia” e poi “mamma” perché cronologicamente, nella vita, la situazione non è rovesciabile, ma penso che sia stata l’esperienza di madre, in realtà, a farmi riflettere prima dell’altra. Cerco di spiegarmi.
Quando i miei figli ne combinavano (da piccoli) e ne combinano (da adolescenti) “una delle loro”, tante volte ci siamo trovati a discutere sul fatto che non è sufficiente rimuginare dentro, ammettere con se stessi di avere forse chissà un pelino sbagliato ma poi neanche tanto, e giù una sfilza di attenuanti ad hoc per l’autoassoluzione. Bisogna trovare il coraggio per “buttare fuori il rospo”, la marachella e affrontare il problema. Certo questo vorrà dire “sentirsele”; certo si innescherà, inevitabile, una discussione, perché compito dei genitori è anche rammentare ai figli cos’è giusto e cos’è sbagliato ed indicare la strada, ma, dopo la “confessione” e la discussione su ciò che è accaduto, sempre il genitore prende (o ri-prende) per mano il figlio e l’abbraccia. Il giudizio sull’“episodio” è chiaro (e guai se non lo fosse!), ma non viene mai messo in discussione l’amore tra genitori e figli. Mai. E’ perdono dato… “per dono”, e cioè gratuitamente e, sempre, im-meritatamente. Ci si rialza, a volte un po’ ammaccati, e la vita va avanti.
Accorgermi di questo da mamma, e soprattutto vedere ritornare finalmente il sorriso sul volto dei miei figli quando trovavano (e trovano) il coraggio di dirmi “la verità” sulle marachelle combinate, mi ha fatto capire cosa mi mancava, quando pensavo fosse sufficiente per me accontentarmi delle quattro chiacchiere con Dio. Un discorsetto fra me e Lui, per capirci.
Niente affatto. Parlavo solo con me stessa, come i miei figli facevano (e fanno) quando si tenevano (e si tengono) dentro il magone. Magari si sono auto-assolti e credono di essere “a posto”, ma una madre lo vede lontano un miglio che anche a loro manca “qualcosa”.
Me ne accorgo perché non hanno coraggio di guardarmi negli occhi.
L’ho capito da loro cosa ci manca, in queste situazioni, e così, in loro, mi sono ritrovata, oltre che madre, figlia. Figlia di quel Padre che avevo inventato per comodo e nascosto dentro il mio cuoricino, facendolo ad immagine e somiglianza mia, disponibile a “bersi” tutte le mie attenuanti, possibilmente muto e anche un po’ cieco e che invece - e per fortuna! - è Altro da me.
Ecco cosa mi mancava! Non mi mancava solo la confessione: la lista dei peccati da far uscire dal cuore e poi dalla bocca (…però l’umiltà, quella sì mi mancava, quando presuntuosamente esaminavo io la mia coscienza e – guarda un po’ – io che mi ritengo un’insegnante ‘rigorosa’ finivo sempre con il promuoverla a pieni voti…).
Mi mancava, soprattutto, la riconciliazione. La percezione fisica, tangibile, vera come quella, concretissima e liberante, che si sperimenta tra genitori e figli, dell’abbraccio misericordioso del Padre. Il Suo perdono “per dono”. E la serenità del cuore che permette di guardarsi di nuovo negli occhi, perché non si ha nulla da nascondere.
Da figlia, poi, ho fatto un altro passetto avanti. Un amico sacerdote mi ha aiutato a capire, testimoniandomelo con la sua vita, cos’è il timor Dei. Non il pavor, la paura. Il timore.
Solo se Lo ami, puoi sperimentare cos’è il timor di Dio”, mi ha detto un sacco di volte (che pazienza, poverino!).
E’ vero! L’ho capito, ancora una volta, pensandomi figlia e madre.
Il timore è il rispetto reverenziale e fiducioso che si prova nei confronti di un padre o di una madre di cui sperimentiamo quotidianamente l’amore incondizionato e senza limiti. E’ il dispiacere che stringe il petto quando ci accorgiamo di non aver corrisposto a questo amore, ma di avergli, ingrati, voltato le spalle. Il timore di Dio è – sembra paradossale – l’unico atteggiamento che permette di non temere mai, perché il cuore è certo che sempre potrà confidare nel solo Amore che mai non tradisce. “Solo se Lo ami, puoi sperimentare cos’è il timor di Dio!”…
E dunque sono stata a confessarmi, stamattina. Da un po’ ci vado spesso, circa una volta al mese, soprattutto per il desiderio di riconciliarmi, di sentire ancora e ancora e ancora il Suo abbraccio misericordioso, tenero e potente.
Mi sono inginocchiata ed ho fatto il segno di Croce. Il sacerdote, novant’anni compiuti il primo agosto, ogni volta prende le mie mani tra le sue e mi guarda, attento. Io parlo e lui ascolta. In verità è lui ma… non è lui, perché, realmente presente nel sacerdote, so che c’è Dio. Ed è con Dio che sto parlando. E’ a Dio che sto aprendo, umilmente, il mio cuore, affinché lo purifichi, lo trasformi e lo rinnovi.
Poi è il sacerdote che mi parla e io, attentissima, ascolto. Ogni volta è come ritrovare la strada.
Alla fine, le sue mani grandi che mi impartiscono l’assoluzione e la concretezza di quell’abbraccio col Padre che significa pace fatta. Solo allora il cuore, finalmente, ritorna leggero come una piuma. Leggero come quand’ero bambina.
So che tante volte ancora avrò bisogno di ripetere il tragitto da casa al confessionale, appesantita dalle mie fragilità, dai miei limiti, dalla mia inadeguatezza. So che tante volte ancora sentirò “va’ e non peccare più!”… Lo so, perché la conversione è un cammino. Ma ancor prima di tutto questo so quanto ho bisogno di poter guardare alla vita ogni giorno con la certezza di aver accanto un Padre buono che mi ama e che mi guida, pronto a riaccogliermi ogni volta che sbaglio. So quanto è rassicurante sentirmi “piccola”, tenuta per mano, e poterlo chiamare “Abba”, “caro Papà mio”. Guardarlo negli occhi e dirgli “io confido in Te!”.
So, infine, che se non avessi sperimentato il perdono, e cioè la misericordia di Cristo, che instancabilmente si china su di me ed ha pietà del mio niente, mai avrei imparato a perdonare…

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