Il campanello della vita
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E’ assorta nei suoi pensieri, quando la saluto. Testa bassa, sta spolverando i tavoli della sala insegnanti. Le mani si muovono veloci e sicure, abituate al lavoro di sempre, ma si capisce che la mente è altrove. E così è la mia voce a scuoterla e a rompere il silenzio dei lunghi giorni d’estate, vuoti di studenti e di insegnanti. Alza il capo, mi guarda, e risponde al mio saluto con la gentilezza che riconosco e che la contraddistingue.
Tocca a lei, in questi giorni, andare in posta a ritirare la corrispondenza per la scuola e siccome aspetto, impaziente, un pacchettino che ancora non è arrivato, decido di accompagnarla.
Sempre di fretta, durante l’anno, a malapena, quando ci si incrocia nei corridoi, si abbozza un saluto di cortesia, e pare impossibile, ma anche dentro questo piccolo mondo che è la nostra scuola, alla fine ci si accorge, con amarezza, di essere estranei gli uni agli altri.
In realtà, per rompere il ghiaccio lungo la strada, basta un “come va?” detto con il desiderio vero di sapere, ed è sufficiente perché nel tragitto da scuola alle poste cada la maschera all’insegnante e alla dipendente ata (chissà poi chi ha deciso che bidella da un giorno all’altro non è più una parola come un’altra ma è diventata offensiva!?) e, senza titoli appiccicati, compare, nella sua disarmante nudità, il “volto”. Solo allora, svelando l’essenza di ciò che ci costituisce, diventiamo due donne qualsiasi, quasi coetanee, che camminano vicine.
La sua risposta alle due mie parole è un fiume in piena. Mi racconta dell’intervento che ha subito da poco e da cui fatica a riprendersi, della chemioterapia a cui si sta sottoponendo la sua mamma, di quanto sia faticoso per lei accettare questo terremoto che, improvviso, ha colpito la sua famiglia, e di quanto sia difficile trovare, dentro, la forza che non c’è o è nascosta chissà dove.
Non cambio discorso. Non mi va di imbrogliarla, di dirle “passerà…”, così, tanto per liquidare l’argomento, spinoso per entrambe. Sono talmente impauriti e confusi i suoi occhi, ed è così aggrovigliata la matassa che ha nel cuore, che per non perdersi è necessario cercare il bandolo, e partire da lì. Umilmente le dico che il bandolo, credo, intanto è cominciare a chiamare le cose con il loro nome (la malattia; ma anche la fatica, il dispiacere, lo scoraggiamento, la paura…) e non censurare nulla, e non vergognarsi di nulla. Alzare la testa e guardare negli occhi la realtà.
C’è forza, dentro questa figura esile e cortese, dalla voce gentile e dai modi pacati! E’ la forza che non sa di avere, ma che dimostra raccontandomi di quando accompagna la sua mamma a fare la chemio e di tutti i modi in cui l’aiuta a non darsi per vinta.
E c’è una forza nuova, ancora più potente, a cui prima – confessa – non aveva mai pensato. Dopo la fase iniziale, in cui le giornate e le ore e i minuti erano riempiti dalle domande “perché proprio a noi… perché adesso… perché questi problemi tutti in una volta…” e le domande erano ostacoli al vivere, sta subentrando la consapevolezza che ragionevole è accogliere ciò che accade, qualunque cosa, cercando lo spiraglio di luce capace di catturare lo sguardo e indirizzarlo al bene.
E così, guardando alla sua vita ora: difficile, faticosa, in cui talvolta pare che una cappa incomba minacciosa e tutta la sua famiglia stia precipitando sempre più giù, in un baratro senza fine, eccolo lo spiraglio di luce che, nascosto chissà dove, fa capolino, all’improvviso, mentre siamo in coda all’ufficio postale. Non è flebile, la luce che si intravede: è così potente da illuminare anche me.
“La sa una cosa, professoressa…?”, mi dice mentre mancano tre persone e poi tocca a noi. “Parlo con lei e, pensando alla mia vita di questi mesi, mi accorgo che non avevo mai guardato la mia mamma ‘così’, come la sto guardando ora che è ammalata”. Fa degli esempi e capisco che non è semplicemente l’occhio di una figlia che si accorge di dovere, alla madre, le stesse attenzioni ricevute. E’ come se il campanello della vita a volte squillasse per svegliarci dal torpore: dalla distrazione di rapporti ‘abituati’, routinari, senza spessore e senza stupore. Ora, quando va dalla sua mamma, c’è il desiderio vero di stare un po’ con lei; di vivere intensamente il tempo che trascorreranno insieme.
Il campanello della vita non ci spiega il motivo per cui ad un tratto decide di suonare; non aspetta il momento in cui siamo “pronti”. Suona quando vuole lui e in questo modo ci avverte che il tempo – tutto – è prezioso. Non solo quello delle persone anziane o malate. Il tempo che viviamo con distrazione, o che sprechiamo, presuntuosamente convinti di esserne padroni e di averne in abbondanza.
E così, mentre in lei si fa strada un’idea nuova del tempo, e di quanto sia prezioso, e delle priorità, ci accorgiamo che può e che deve cambiare e diventare più vero e più profondo (per lei che parla e per me che l’ascolto) lo sguardo nei confronti delle persone (tutte) e delle circostanze (tutte). Anche i nostri dieci minuti insieme, vissuti in questo modo, e cioè senza fretta e senza maschera, si sono rivelati “speciali”!
Ci siamo lasciate con un abbraccio, non nascondendoci che la strada spesso sarà in salita, che occorrerà stringere i denti, ma convinte che la cosa più urgente, ora, non è domandare “perché?”. E’ mendicare. Chiedere a Chi, solo, può dare quel che serve davvero, la forza e il coraggio di andare avanti. E di imparare non solo ad accogliere, ma ad abbracciare i giorni che verranno. Tutti. Qualsiasi sia il colore e il profumo con cui si presentano alla porta della nostra vita.
Oggi sono tornata a scuola. Volevo salutarla, semplicemente. Non c’era: è in ferie per qualche giorno. Allora sono entrata in segreteria, ho chiesto il suo numero di telefono e l’ho chiamata. “Come va?”. Era contenta di sentirmi, forse un po’ stupita. Il discorso è ripreso, con naturalezza, dove l’avevamo lasciato. So che continuerà, dentro questa amicizia nuova, nata, un giorno d’estate, nel tragitto tra la scuola e l’ufficio postale.