In piazza a Monza per i cristiani perseguitati
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
“Quello che fai per te fallo per il mondo!”: sono poche, semplici parole quelle pronunciate da Silvio Cattarina (Presidente della comunità terapeutica per minori “L'imprevisto” di Pesaro) al Triduo Pasquale di Gioventù Studentesca. Ma alcune frasi nella loro apparente banalità finiscono inesorabilmente per segnarti dentro. A me è successo, e voglio partire da qui per provare a spiegare la nostra esperienza.
GS di Monza, movimento di educazione alla fede di cui faccio parte, ha organizzato ai primi di Giugno 2011 l'esposizione di una bellissima mostra a pannelli sulle persecuzioni, ai giorni nostri, ai danni dei cristiani nel mondo. Abbiamo raccolto, in concomitanza con la presentazione della Mostra, firme da inviare al Parlamento europeo per sensibilizzare tutti sulle persecuzioni. Il percorso, in sei “tappe”, permetteva al lettore di analizzare sotto vari punti di vista, un problema tanto radicato quanto poco osservato e trattato. Soprattutto se si vede questo dramma in proporzione alle cifre spaventose che pervengono: oggi giorno il 75% delle persecuzioni nel mondo per motivi religiosi è contro i cristiani.
Con questo gesto volevamo far capire a chi con noi, non tanto condivide idee religiose ma vive nella società e sente di esserne parte integrante, che la “discriminazione” non è soltanto quella rivolta agli stranieri, agli omosessuali, ecc... ma è innanzitutto ciò che opprime l’anelito spirituale dell'uomo. Noi siamo “esseri religiosi”, perché viviamo di emozioni, conflitti interni, gioie, pianti e sorrisi, ma dentro tutte queste tensioni e circostanze cerchiamo il senso ultimo di tutto quello che viviamo.
E' da qui che parte l'idea, o ancor meglio il desiderio di gridare al mondo intero che nel 2011 è impensabile che si venga licenziati solo perché si porta al collo una croce (come è avvenuto recentemente alla British Airways), che si venga sospesi dal lavoro perché ci si offre di pregare per il proprio paziente, assecondando la sua volontà (triste destino della dottoressa inglese Caroline Petrie); che è impensabile, inoltre, che nel centro di Genova possano girare mezzi pubblici recanti la scritta: “la cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno” (lo slogan della UAAR, associazione degli atei italiani); che è inaccettabile che in Indonesia tre ragazze vengano massacrate dai militari mentre vanno a scuola solo perché hanno il coraggio di proclamarsi cristiane!
Il progetto, in realtà partito in precedenza dalla provocazione dei nostri amici di Lecco, i veri ideatori del percorso, ha richiesto a tutti noi una mossa dell’io perché le difficoltà si sono subito presentate: innanzitutto la tempistica, che richiedeva una veloce organizzazione logistica; poi l'impegno di adulti e di noi ragazzi (di fatto a fine Maggio, con gli impegni scolastici più che mai impellenti soprattutto per i maturandi, non è facile “sacrificare una Domenica intera”); una buona dose di coraggio, considerando il rischio di dover giocare la propria faccia scendendo in piazza in pieno centro a Monza con cartelloni, volantini e megafoni per attirare il maggior numero possibile di persone; infine le condizioni atmosferiche che non ci hanno certo aiutato.
Ma è qui che entra in scena il senso profondo della frase di Silvio Cattarina: confrontarsi con il mondo “là fuori” voleva dire prendere posizione, alzare la voce, mettersi in gioco davanti alle persone che incontravi per strada e che magari gratuitamente ti insultavano o snobbavano. La cosa straordinaria era che, nel distribuire i volantini e nel parlare con le persone per strada, si era obbligati a dire all'altro: “ Io sono qui, e l’esperienza che faccio mi fa essere protagonista davanti a tutto quello che succede …”. Nulla poteva essere lasciato al caso, perché in gioco c'era la nostra fede e tutto quello per cui viviamo ogni giornata, dallo studio allo stare insieme con gli amici. Bisognava dimostrare, prima di tutto a noi stessi, che le nostre belle parole non bastano e che l’esperienza, per diventare più vera e più tua, deve tenere davanti al reale, occorre scoprire e verificare le ragioni della nostra speranza.
E sapete qual è il bello? Che se riusciamo nell'”impresa”, se verifichiamo che per ciò per cui lottiamo e in cui crediamo vale la pena rischiare, chi ci sta davanti non può non rimanerne in qualche modo colpito: come si può tornare a casa senza chiedersi: “Cosa ci faceva quel ragazzo la Domenica pomeriggio, sotto la pioggia, a parlare di cristiani e missionari?”.
Pensate la bellezza di una cosa del genere: una ventina di ragazzi, qualche pannello, il timore iniziale di fronte ad una esperienza del tutto nuova, il piccolo stimolo di confrontarsi con chi magari ancora Cristo non l'ha incontrato, e alla fine la gioia di sorprendere chi abbiamo di fronte con i nostri occhi, con il nostro sguardo pieno di qualcosa.
“Dal nostro desiderio alla missione per il prossimo”, ecco il significato della frase: “quello che fai per te, fallo per il mondo”.
Ci ha aiutato a capire tutto questo la splendida testimonianza di Padre Bernardo Cervellera (missionario del PIME e direttore di AsiaNews, il maggior organo di informazione tuttora presente su gran parte del territorio asiatico per la sensibilizzazione contro la persecuzione dei cristiani in quei luoghi) che abbiamo invitato a conclusione del gesto.
Una testimonianza di fede unica e curiosa, perché partita inizialmente non certo dal desiderio di cambiare il mondo, bensì da un desiderio personale di confrontarsi con la realtà circostante e di rispondere al proprio desiderio di verità. E’ incredibile pensare come, dalla presa di coscienza dell’io si possa diventare missionario, rischiare la propria vita ogni giorno, perché certi che la grandezza dell’uomo è nella ricerca di una risposta al proprio desiderio di compimento. La fede è come un fiore, non nasce già pronto, ma ha bisogno del seme e del tempo perché possa germogliare, della pioggia che lo possa nutrire. Dalla nostra domanda più profonda sboccia la nostra fede che ci rende capaci di abbracciare tutto il mondo.
Il titolo di uno dei nostri pannelli citava una frase del testamento di Shahbaz Bhatti, il ministro pakistano per le minoranze ucciso per la sua fede in Dio: “Io voglio servire Gesù da uomo comune”.
E quella domenica, da uomo comune, sento di averlo fatto anch'io.