Uomini di Dio
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
È il titolo del bel film di Xavier Beauvois sui monaci cistercensi francesi vissuti in Algeria, a Tibhirine, nel monastero di Notre-Dame de l’Atlas, a stretto contatto con la popolazione musulmana che decisero di non abbandonare neppure a rischio della stessa vita. E fu così, nell’Algeria sconvolta dal terrorismo: i monaci continuarono a offrire la loro opera e la loro testimonianza fino a quando non vennero rapiti e uccisi nel marzo del 1996. Non è ancora chiaro da chi, ma la loro storia, luminosa e fedelmente rievocata dal film di Beauvois, ha colpito atei e credenti per la bellezza della vita da loro svolta in un ambiente povero, tra uomini di religione diversa a cui il cristianesimo appariva come una eccedenza di amore a volte difficile da capire. Aiutavano tutti e pregavano per tutti, senza far differenza tra i terroristi che si rivolsero a loro per curare dei feriti e gli uomini dell’esercito che li combattevano. Un amore e un perdono che i monaci vivevano innanzitutto tra loro e che ha permesso che si trovassero uniti nella decisione suprema di restare, a rischio del martirio. Scrive Christian, l’abate de l’Atlas: “potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con Lui i suoi figli dell’islam come Lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo”. Gran premio della giuria di Cannes 2010, il film mi è tornato alla memoria in questi giorni in cui abbiamo assistito alla beatificazione di tre figure della Chiesa milanese, grandi nella loro umiltà: don Serafino Morazzone (1747-1822), Suor Enrichetta Alfieri (1891-1951), padre Clemente Vismara (1897-1988). Altri uomini di Dio. Innanzitutto perché chiamati, scelti. Testimoni di un amore senza misura, segno di un Amore più grande. Padre Vismara, Missionario del PIME, ha molto in comune con i monaci francesi. Visse in Birmania in due piccoli villaggi rurali che trasformò profondamente: Monglin e Mongping. Si dedicò soprattutto agli orfani e costruì una struttura sociale all’avanguardia in un’area rurale senza scuole né ospedali. Quando il nuovo governo birmano, a metà degli anni Sessanta cacciò tutti gli stranieri arrivati dopo il 1948, padre Vismara rimase a Mongping a lavorare fino alla sua morte. La sua santità venne subito riconosciuta dalla gente che gli era stata vicino nei 65 anni trascorsi in missione. Scrisse: “la vita bisogna spenderla per qualcosa di più duraturo della vita stessa”. E così fece, sotto gli occhi di Dio, in una terra dimenticata da tutti. La biografia di don Serafino è raccontata in un libretto, “Amico di Dio, amico di tutti” (F. Consolini, Amico di Dio, amico di tutti, Centro ambrosiano). Perché senza porre al centro il rapporto con Dio è impossibile l’apertura e un amore gratuito agli uomini come lo testimoniò don Serafino. Senza Dio può esserci filantropia, non amore. Fino alla sua beatificazione pochi sapevano di lui oltre l’ambito del lecchese dove fu parroco. Lo conobbe Alessandro Manzoni che ne apprezzò le qualità cristiane e ne lasciò traccia nel “Fermo e Lucia”. Infine suor Enrichetta, immagine della libertà interiore e dell’amore vissuti per quasi trent’anni nel carcere di San Vittore. Suo sostegno il rapporto con Dio, sorgente di ogni carità. Nella disumanità del carcere, nell’ambito della parrocchia, nelle foreste della Birmania, nell’Algeria islamica, un unico miracolo. Cuori che si lasciano conquistare da un amore più grande di tutti gli altri, come dice fra Luc a una ragazza musulmana. E che rende felici. Diceva Padre Vismara: “E’ una vita un po’ dura la mia, ma ci si trova gusto a vivere e a far vivere”.