Tra Dichiarazioni Anticipate e Testamento biologico
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Se ne parla tanto e da più parti. Spesso però non è ben chiaro a cosa si riferiscano i termini “dichiarazioni anticipate”, “fine vita”, “testamento biologico” e quale sia la posta in gioco.
Come noto, il disegno di legge (ddl Calabrò), già approvato dal Senato, riguardante “disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, ha superato ieri alla Camera due test costituiti dalle pregiudiziali di costituzionalità e dalla richiesta di sospensione della discussione in corso. Con le dichiarazioni anticipate (DAT), chiunque può esprimere il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari e di fine vita, in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere.
La legge in esame precisa chiaramente che, in queste dichiarazioni può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto “ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive o altamente invalidanti”. Altrettanto chiaramente si dice che non si possono inserire indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente.
Una precisazione importante del disegno di legge è quella secondo la quale “in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato” le dichiarazioni non operano. Il prioritario obbligo di medici e soccorritori è il tentativo di salvare la vita. Diversamente, si determinerebbero situazioni di incertezza operativa che potrebbero essere fatali.
I due punti del disegno di legge più dibattuti sono quelli riguardanti l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui scienza e tecnica possono fornirle al paziente. Esse, in armonia con la Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, “sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare sofferenze fino alla fine della vita” e non sono rinunciabili.
L’altro punto contestato è quello secondo il quale le volontà espresse con dette dichiarazioni “sono valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza”.
In sostanza, la questione decisiva – secondo la legge – è l’attenzione per quelle ipotesi in cui trattamenti sanitari e sostegni vitali non sono rinunciabili, ipotesi da valutarsi concretamente e in ragione di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente. In questa valutazione incide, per esempio, la situazione di malattia terminale: in tale situazione, alcuni interventi di cura e di sostegno possono risultare forme di accanimento terapeutico; in altre, come una situazione di disabilità grave o di coma, sono invece cure e sostegni del tutto proporzionati.
Le posizioni che si possono assumere davanti a dichiarazioni con le quali si sottoscrive l’accettazione o il rifiuto di terapie mediche, in caso di patologie che facciano perdere l’autodeterminazione, sono di due tipi: a) esse possono riguardare il rifiuto di terapie “sproporzionate o sperimentali” (accanimento terapeutico); b) oppure possono avere a oggetto il rifiuto di qualunque trattamento, anche di terapie proporzionate ed efficaci, o di sostentamenti vitali di base; in questo secondo caso, aprendosi al riconoscimento di ipotesi di eutanasia.
Da più parti, soprattutto dalla cultura di sinistra e radicale, si sollecita proprio una disciplina che introduca il testamento biologico, ossia quel testamento che riguarda la propria vita, e che garantisca a tutti il diritto alla libertà di scelta di quali terapie o di quali aiuti medici avvalersi nei casi in cui non si sia più in grado di decidere. Generalmente infatti si ritiene che con il testamento biologico ogni persona, in libertà di coscienza, possa decidere di se stessa come creda, rivendicando la primazia di una libertà di scelta assoluta, anche se ciò dovesse comportare la rinuncia a vivere. In alcune recenti sentenze di merito, il giudice ha autorizzato un amministratore a compiere, in nome e per conto del beneficiario, i seguenti atti: “negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare alla persona trattamento terapeutico alcuno e, in specifico, rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusioni di sangue, terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione e alimentazione forzata e artificiali”.
Per evitare questa conseguenza, il progetto di legge pone alcune condizioni alle dichiarazioni in oggetto: occorre l’accertamento di uno stato vegetativo; il carattere sproporzionato o sperimentale dei trattamenti rinunciati; alimentazione e idratazione non sono rinunciabili; le dichiarazioni sono valutate dal medico in scienza e coscienza e non devono essere in contrasto con le norme giuridiche e la deontologia medica.
Occorre essere chiari. Se non si condivide detto compromesso, se si arriva ad affermare che “la libertà della persona rispetto alle terapie è una libertà assoluta”, occorre essere consapevoli che tale affermazione porta all’introduzione di forme di eutanasia, il cui riconoscimento coinvolge altre persone e – per cominciare – gli stessi medici, la cui azione è deontologicamente rivolta invece alla cura dei pazienti e al miglioramento delle loro condizioni di vita.