Cile: ritorno alla luce in diretta TV
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Tutto il mondo, in queste ore, ha gli occhi puntati sulla vicenda dei trentatré minatori che il 5 agosto sono rimasti intrappolati nella miniera di San Josè in Cile.
Si calcola che siano un miliardo, le persone che seguono, in tutto il pianeta, l’operazione di salvataggio.
Le immagini sono seguite in diretta da tutti i grandi network televisivi che seguono il recupero dei “mineros”, a mano a mano che i minatori sono portati in superficie, sembra consolidarsi la certezza della conclusione felice per tutti, e noi spettatori di questa vicenda ci sentiamo partecipi di una grande festa collettiva.
Guardi la capsula scendere, le carrucole girare e poi la risalita, il primo minatore portato in salvo abbraccia il figlio, un bambino che hai visto piangere d’emozione ancora prima di poter vedere suo padre sano e salvo, guardi l’abbraccio con la moglie e ti sembra quasi d’essere di troppo, se da una parte condividi la sua gioia dall’altra, ti verrebbe di dire ora che il salvataggio è compiuto lasciateli gioire in pace.
Poi c’è Mario Sepulveda, il secondo a essere portato in salvo, che ha donato a tutti le pietre che per due mesi gli sono state compagne nelle viscere della terra, le sue prime parole sono state per tutti una lezione di vita: “Non ci trattate come star dello spettacolo (…) ma continuate a trattarci come Mario, il lavoratore, il minatore”. E pensare che c’è gente che si fa rinchiudere in una casa per mesi per cercare un po’ di fama effimera.
Siamo tutti dei guardoni o siamo esseri umani che condividono il destino dei propri simili?
Il filo che separa i due profili a volte pare essere sottile.
Perché davanti alla tv ci incollano anche le ricostruzioni delle brutture eseguite sul corpo di un’adolescente senza vita, il desiderio di guardare il dolore, la disperazione, il male, negli occhi di chi l’ha subito o di chi l’ha commesso, e di poter poi dire la nostra, quasi a esorcizzare quel male, quelle domande rimaste senza risposta.
E allo stesso tempo davanti alla tv ci incolla il desiderio di condividere il destino buono di quei minatori, delle loro famiglie e di chi ha lavorato in questi mesi perché si potesse tornare a ridere, a lavorare, a vivere.
Quando è iniziata, la vicenda dei minatori di San Josè ve lo dico con sincerità, la mia mente è andata a tanti anni fa, quando nel 1981 Alfredino Rampi, un bimbo di sei anni, cadde nel pozzo artesiano di Vermicino, alla periferia di Frascati.
Vi fu una diretta televisiva di 18 ore, eravamo tutti incollati al video, sicuri che la tecnologia avrebbe riportato in superficie il bimbo.
Non eravamo abituati alla tv guardona, che va dentro la notizia, dentro il dolore, la vittoria non ci fu. Tentarono in molti, persino un nano e un contorsionista calati dentro il pozzo, ma il bimbo morì e noi ci trovammo a dover spegnere il televisore avendo subito una sconfitta collettiva. Ricordo una frase che si ripeteva – andiamo sulla luna e non siamo riusciti a salvare un bambino -.
Oggi invece mentre scrivo la capsula Felix, va e viene dal sottosuolo con il suo carico prezioso di uomini riportati alla luce.
La tecnologia questa volta non è matrigna ma materna, sta aiutando la terra a partorire questi uomini che per due mesi sono stati nel suo ventre.
In fondo la storia è sempre uguale, non sono la tecnologia o la televisione a essere madre o matrigna, sono gli uomini, che usano della loro libertà, delle loro conoscenze, per l’uomo o contro l’uomo.
A volte gli uomini si credono i padroni del mondo, credono di poter sacrificare la vita, toglierla, manipolarla, decidere chi sia degno o meno di vedere la luce, e quando l’uomo si crede creatore del proprio destino, finisce inevitabilmente per esserne il distruttore.
Ha detto uno dei minatori: “Stavo con Dio e con il diavolo hanno lottato entrambi per avermi e ha vinto Dio. Mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che mi avrebbe tirato fuori di là.
Credo di avere avuto una fortuna straordinaria. (…) Sono felice che sia capitato a me, credo che questo sia il momento giusto per fare dei cambiamenti nella mia vita”.
Chapeau.
Se a volte avessimo una consapevolezza pari a quella di quest’uomo vissuto nelle tenebre della terra per due mesi, la consapevolezza che il destino non ci appartiene, ma che forti di questa certezza, abbiamo la responsabilità di usare l’intelligenza, la conoscenza, la fantasia, la libertà perché tutto concorra al bene dell’uomo.