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La sacralità del Primo Maggio

Autore:
Guastalla, Guido
Fonte:
CulturaCattolica.it

L’ipotesi che per il Primo Maggio si potesse lavorare in Toscana nel settore del commercio ha provocato poco meno di una rivoluzione. Che i lavoratori del commercio, in presenza di contratti regolarmente stipulati, possano, se vogliono, rifiutarsi di lavorare è, credo, un diritto che nessun mette in discussione; salvo l’opportunità, in un periodo di gravissima crisi valutare l’opportunità di rinunciare ad un giorno di festa per aiutare la ripresa dei consumi e quindi la sopravvivenza di attività commerciali in gravissima crisi e a rischio di chiusura (con conseguente perdita occupazionale).
Ma non è questo il punto da sottolineare, quanto le motivazioni addotte, che poco hanno a che fare con la dialettica sindacale e laica di un rapporto che “di sacro” non ha proprio niente. Il Primo maggio è una festa soprattutto europea che ha avuto un riconoscimento su base storica. Dire che è una festa di popolo e non di consumo legata al fatto che i lavoratori hanno riconsegnato agli italiani la libertà perduta durante il fascismo è un assurdo che rischia, sempre laidamente, di risultare blasfemo. La libertà, fino a prova contraria, è stata riconquistata grazie ad una partecipazione di cittadini di ogni estrazione sociale, politica, religiosa, senza alcuna distinzione e non può essere considerata il risultato di una iniziativa proletaria, a meno che non si torni al concetto di lotta per la rivoluzione, di rivoluzione mancata e così via.
Ma ciò che meraviglia è che da parte di chi ha sostenuto fino in fondo la secolarizzazione della società, la sua desacralizzazione, si sostenga oggi che questa festa, “la festa dei lavoratori è assai più sacra di tante altre festività”.
Ora il concetto di “sacro”, così come si è elaborato nella tradizione giudaico-cristiana ha un significato preciso: è la “separazione fra il profano e il luogo destinato al culto della fede, al riposo sabbatico che Bibbia ritiene sacro per tutti gli uomini, liberi o schiavi, e anche per gli animali che sono al servizio dell’uomo. Questa “separazione” ha tutta una serie di riti che marcano la differenza fra il tempo destinato al lavoro e il tempo destinato al culto.
Ma ciò che appare più strano è che proprio coloro che contestano al Papa o a un rabbino la denuncia del consumismo che prevale, nuova idolatria moderna, nel giorno “sacro”, con l’apertura di negozi, outlet, supermercati e così via, ritenendo che sia una indebita interferenza nell’ambito della sfera pubblica, attribuiscano invece ad una festa, storicamente determinata, e contrattualisticamente inserita nelle festività riconosciute, una dimensione “sacra” e salvifica che, pur con tutto il rispetto che le dobbiamo portare, non ha e non può assolutamente avere.
Forse la crisi di certe ideologie ottocentesche si misura proprio nella rivendicazione di valori metastorici e salvifici che appartengono ad ambiti diversi, appunto quelli che coltivano “il sacro” e che non possono essere ricondotti alla dimensione della politica e delle forze sociali.

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