Quer pasticciaccio brutto...
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Per fortuna, i meccanismi democratici del nostro Paese tengono.
Quer pasticciaccio brutto delle elezioni regionali – per riprendere il felice titolo di Gadda – li ha messi a dura prova. Già la situazione generale non pare delle migliori, le tensioni politiche sono estremizzate e spesso si ricorre allo strumento della delegittimazione dell’avversario politico. Ora, siamo al caos anche nelle procedure elettorali. Così è successo, non si sa bene come ci si sia arrivati ma fatto sta che è successo, una buona fetta del popolo italiano ha rischiato di restare senza rappresentanza politica alle prossime elezioni regionali. Non era facile ottenere un risultato così eclatante, ma un groviglio di circostanze ha reso l’improbabile una pericolosa realtà a cui dare risposte e soluzioni.
Un pasticciaccio brutto brutto, come quello in cui si trova coinvolto il commissario Ingravallo, in arte don Ciccio, che cerca di dipanare la trama di un omicidio, in una realtà complessa e talmente variegata da diventare, essa stessa, una sorta di filosofia esistenziale: «sosteneva – il protagonista – che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo» [1].
Un garbuglio, appunto. Un funzionario di partito, il PDL, si presenta a depositare le liste elettorali all’ultimo momento dell’ultimo giorno utile, si mette in fila, poi, forse per sistemare beghe interne di candidati, si assenta e torna oltre l’orario. I radicali, la cui esponente principale in Lazio, la Bonino è candidata del PD, impediscono il deposito fuori termine delle liste. La Polverini, candidata PDL per il Lazio, rischia di rimanere fuori dalla competizione, per l’esclusione disposta dall’Ufficio centrale regionale. In Lombardia, poiché i problemi non vengono mai da soli, si ripete lo psicodramma. L’Ufficio centrale regionale ammette, questa volta, la lista “per la Lombardia” di Formigoni, presentata in termini e con un numero di firme sufficienti. Solo dopo un esposto presentato dai radicali, il medesimo Ufficio, in sede di autotutela, revoca l’ammissione della lista, per irregolarità formali, rinvenendo alcune firme raccolte senza timbro dell’autorità autenticante, senza indicazione del luogo di autenticazione o della qualifica dell’autenticante. La maggior forza politica che ha governato la Lombardia ormai da diversi mandati rischia di rimanere senza rappresentanti.
Un gomitolo di circostanze e di responsabilità. Un bel po’ di pressapochismo negli adempimenti preliminari legati alla competizione elettorale da parte del partito di maggioranza. Una buona dose di acredine politica dei candidati dell’opposizione, legata ai radicali, pronti a cavalcare la carta del legalismo formale pur di “vincere facile” (come nella pubblicità). Quello stesso legalismo formale, peraltro, era stato loro fatale in vecchie elezioni di una quindicina di anni fa, quando i radicali erano stati esclusi e riammessi in corsa per il rotto della cuffia, proprio da un decreto legge (e in quella occasione non se ne erano certo lamentati). Ci si sono messi anche gli uffici elettorali presso le Corti di Appello di Roma e di Milano, che hanno applicato le norme vigenti con un rigore particolare, addirittura riformando, in un caso, la già disposta ammissione, andando a spulciare firma per firma la lista del PDL, a seguito dell’esposto ricevuto, ma creando disparità di trattamento rispetto alle altre liste, che non sono state invece sindacate con la medesima lente di ingrandimento e con lo stesso metro di giudizio, in assenza di altrettanti pari esposti contro la loro presentazione.
Insomma, un groviglio esplosivo per la democrazia rappresentativa. Milioni di elettori non avrebbero avuto alcuna forza politica da votare, se non come soluzione di ripiego.
Dicevo sopra che i meccanismi di garanzia hanno funzionato.
Mi riferisco alla funzione di garante imparziale della tenuta democratica del Paese, del Presidente Napolitano, che ha controfirmato il decreto legge del governo, di interpretazione autentica degli artt. 9 e 10 della legge elettorale 108 del 1968. “Non era sostenibile – ha precisato – che potessero non partecipare alle elezioni nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo, per errori nella presentazione della lista… Erano in gioco due interessi o beni entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi”.
Si tratta di pochi commi [2]. Le norme elettorali vanno interpretate nel senso che “il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale” (chiaro riferimento al caso laziale). Inoltre, “le firme si considerano valide anche se l’autenticazione non risulti corredata da tutti gli elementi richiesti, purché tali dati siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta”, e “la regolarità della autenticazione delle firme non è comunque inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro dell’autorità autenticante, dell’indicazione del luogo di autenticazione, nonché dell’indicazione della qualificazione dell’autorità autenticante, purché autorizzata” (chiaro riferimento al caso lombardo).
Deve anche aggiungersi che la mancanza del timbro di autenticazione è stata riconosciuta come una mera irregolarità, non idonea ad inficiare la raccolta di firme, anche dal Consiglio di Stato, in diverse sentenze [3]. L’odierno decreto, dunque, per questa parte, si limita ad ufficializzare un orientamento giurisdizionale già più volte enunciato.
Il decreto precisa poi che “le decisioni di ammissione di liste di candidati o di singoli candidati da parte dell’Ufficio centrale regionale sono definitive, non revocabili o modificabili dallo stesso Ufficio” e contro di esse “può essere proposto esclusivamente ricorso al Giudice amministrativo”; ciò, ad impedire gli esiti contraddittori a cui si è giunti in Lombardia.
Peraltro, quest’ultimo punto è stato espressamente affermato anche dal TAR Lombardia [4] (altro soggetto di garanzia che ha funzionato) che ha sospeso il provvedimento di esclusione della lista di Formigoni ammettendola in via cautelare alle operazioni elettorali e che è giunto alla medesima conclusione interpretativa, senza bisogno di alcun decreto a monte: “il procedimento previsto dall’art. 10 della legge 108/1968 non sembra lasciar spazio all’esercizio del potere di autotutela o, comunque, di revisione dei risultati dell’atto di ammissione delle liste, a parte il rimedio… che tuttavia si riferisce in modo tassativo all’impugnazione delle decisioni di eliminazione delle liste o dei candidati”. Insomma, solo chi è escluso può chiedere di rivedere in via di autotutela il giudizio dell’Ufficio elettorale presentando nuovi elementi a proprio favore. L’Ufficio non può invece rivedere le proprie decisioni sulla base di esposti presentati contro l’ammissione di liste concorrenti.
Quello che mi preme sottolineare è che sia la enunciazione espressa dal Capo dello Stato, sia la decisione assunta dal TAR Lombardia, esprimono posizioni di assoluto buon senso.
Le regole che disciplinano gli adempimenti elettorali, ed in particolare quelle relative alla presentazione delle liste da parte di un certo numero di sottoscrittori (che hanno lo scopo di “garantire un minimo di serietà alle candidature”), dovrebbero essere interpretate secondo il principio del cd. favor partecipationis, che vuol dire che in situazioni di incertezza dovrebbe privilegiarsi la soluzione favorevole alla maggior concorrenza elettorale possibile. Altrimenti, si rischia di cadere non nell’applicazione della regola, bensì nel formalismo. Il problema è discriminare quando la regola ha una ragione sostanziale di applicazione e quando invece risulta mero adempimento scollegato da alcuna ragione effettiva (“esteriorità a cui non corrisponde nessuna essenza” [5]). In tal caso, può diventare arbitrio.
Un disegno di legge presentato al Senato nell’ormai lontano 1972, n. 332, proponeva di non richiedere neppure la sottoscrizione degli elettori nel numero prescritto per la presentazione dei candidati, quando il loro contrassegno fosse appartenuto a partiti già rappresentati in parlamento [6]. Non se ne è mai fatto nulla. Ma la proposta dà l’idea di quale sia il significato da attribuire al quorum di firme di presentazione delle liste.
In ogni caso, quando una applicazione eccessivamente rigorosa delle regole elettorali rischia di ledere i diritti politici dei cittadini e la loro partecipazione democratica alle elezione dei propri rappresentanti, è questa seconda esigenza che dovrebbe prevalere. E’ in gioco la stessa democrazia partecipativa.
Per questo, mi paiono veramente azzardate e non condivisibili quelle interpretazioni che vedono nella risposta del Governo e nella controfirma del Presidente della Repubblica un vulnus alla stessa democrazia del paese, parlandosi di “decreto truffa”, con inevitabile contorno di manifestazioni in piazza e cori di attentato alla costituzione. Né ritengo che possa ridursi la questione al “disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità” [7], ed al “disprezzo delle forme” che “si accompagna sempre a regimi carismatici autoritari”, scomodando addirittura la vastità informe (gestaltlose Weite) di cui parla il giurista Carl Schmitt. Mi pare, all’opposto, che tutti i regimi autoritari siano sempre stati caratterizzati da limitazioni alla partecipazione elettorale, utilizzando, spesso, giustificazioni di natura formalistica ed accampando impedimenti burocratici.
Un maggior tasso di democraticità è dato dal più alto numero di soggetti eleggibili e dal più ampio dibattito elettorale e dalla presenza di più indirizzi politici sottoposti alla approvazione popolare.
C’era una vecchia canzone di Gaber che diceva “libertà è partecipazione”.
A fronte di ciò, il richiamo al disprezzo delle regole appare fuorviante. Non si dimentichi che fanno parte delle regole del gioco (reputate vilipese) anche il Capo dello Stato ed il TAR in funzione di controllo.
Ora, non v’è dubbio che, nel caso di specie, vi sia stato un pateracchio e non si vuole giustificare nulla dell’approssimazione che ha guidato la forza politica di maggioranza. Ma in presenza di questa situazione ormai verificatasi, mi pare che il vero vulnus alla democrazia sarebbe stato non assicurare il diritto fondamentale del popolo di scegliere i propri rappresentanti, disconoscendo ad una fetta rilevante di elettori, forse maggioritaria, la possibilità del voto; e non certo il decreto legge emanato e controfirmato dal Presidente, che sarà anche un decreto “sanante”, ma che permette la salvaguardia sostanziale della democrazia rappresentativa.
Note
[1] C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, 1999, p. 4.
[2] Decreto Legge 5 marzo 2010, n. 29, “Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione”.
[3] Ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 6 maggio 2006, n. 1074. Nel caso lombardo, le sole firme annullate per mancanza di timbro, e da ritenersi invece valide ai sensi di detto orientamento, avrebbero permesso di raggiungere il quorum di firme, 3.500, sufficienti per la presentazione della lista.
[4] TAR Lombardia, sez. IV, ordinanza 6 marzo 2010, n. 208.
[5] S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, 84.
[6] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Cedam, Padova, 1975, p. 441.
[7] B. Spinelli, Il Governo, la forma e la sostanza, in La Stampa, 7 marzo 2010.
Stefano Spinelli