La Maginot dei magistrati
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Prima la Cassazione, poi le Corti di Appello. Anche il 2010 ha visto celebrarsi la consueta inaugurazione dell’anno giudiziario, con il Guardasigilli, Angelino Alfano, presente all’Aquila, il popolo dei giudici riunito nei palazzi di giustizia, ad ascoltare le relazioni sullo stato della giustizia del Primo Presidente di Cassazione, Vincenzo Carbone, e del Procuratore Generale di Cassazione, Vitaliano Esposito, nonché dei Presidenti delle Corti territoriali.
Certo, ciò che colpisce e che è stato riferito dai giornali è il segno esteriore. Scranni vuoti, alcuni, per il vero meno di quello che ci si aspettasse. Una parte del popolo delle toghe, aderente all’associazione nazionale magistrati, in sciopero, volutamente assente per protesta contro le iniziative di riforma proposte dal governo. Una parte, presente all’appuntamento in toga nera, con il libello della costituzione in mano, ad indicare evidentemente la ritenuta violazione di detta carta da parte delle iniziative governative, a manifestare la silenziosa ma al tempo stesso eclatante e vistosa testimonianza di una contrarierà politica da ultima resistenza della linea Maginot.
Giudici e riforma della giustizia, giudici e manifestazioni simboliche, un prendere posizione contro l’indirizzo politico in materia di giustizia, da parte di servitori imparziali della giustizia.
Eppure… Eppure, c’è qualcosa che non torna. A quelle manifestazioni esteriori non corrisponde un altro popolo, quello di chi lavora silenziosamente nelle aule di udienza, che ascolta i testimoni, che cerca di dare giustizia, che si scontra quotidianamente con i problemi degli uffici giudiziari, con i ruoli già pieni di cause, che fa sentenze, che si prepara, studia e ascolta le parti.
Questi sono i giudici che conosco e che apprezzo; perché, seduto dall’altra parte del tavolo d’udienza, so che non è facile l’esercizio del potere di giudicare l’altrui persona, che richiede una umanità, una attenzione ed una delicatezza non comuni, e che raddoppia le responsabilità. Equilibrio difficile, che non può essere sprecato con presenzialismi vari o, peggio ancora, con azioni politiche improbabili.
Allora, mi è parso stridere ciò che si è visto nelle foto dei quotidiani, alcune file di giudici in piedi con un grande foglio davanti, con quanto si è invece sentito nella stessa giornata da parte dei vertici dell’ordinamento giudiziario. Mi ha colpito ciò che ha sottolineato in apertura il Presidente della Cassazione: “la giustizia va concepita non come ‘potere’, ma come ‘servizio’ (il ‘servizio giustizia’), nel senso più elevato dell’espressione, al quale si chiede, in primo luogo, funzionalità ed efficienza”; e ciò che ha detto il Procuratore Generale: “efficienza del servizio ed effettività dei diritti: sono questi i punti nodali della questione giustizia, all’interno dei quali vanno individuate le ragioni della crisi di identità del magistrato, per contribuire ad avviare – come ha indicato il Capo dello Stato – un confronto senza opposte pregiudiziali e posizioni rigidamente precostituite”.
Quest’ultimo ha poi concluso, senza mezzi termini: “è mio fermo convincimento che la magistratura debba restare rigorosamente estranea ad ogni conflitto con le parti politiche: l’unica politica consentita al magistrato, nell’esercizio delle sue funzioni, è quella di seguire la legalità”.
Il Primo Presidente Carbone ha anche riservato alcune considerazioni sulla riforma della giustizia, che “quale ne sia il modello, non va concepita e realizzata – da nessuna delle parti – come un momento di scontro tra Poteri dello Stato, ma come un momento di incontro e di convergenza” e “deve essere il più possibile condivisa tra le forze politiche ma anche tra gli operatori”; ed ha precisato il ruolo spettante a questi ultimi, “i quali possono contribuire a individuare i nodi critici ‘veri’, non quelli mediaticamente più appariscenti”, concludendo “tale confronto istituzionale non deve, però, implicare la negoziazione o la concertazione di tutte le scelte – specie di quelle di carattere generale – che finirebbero per far perdere la ‘visione’ globale dell’intervento, e con essa gli interessi del cittadino e del sistema Paese”.
Un’ultima considerazione, più amena. Il Palazzaccio, simbolo della giustizia romana, così chiamato con un termine un po’ sgraziato, tipico dell’espressione romanesca, tra l’affettuoso e l’irriverente, in realtà è rimasto innominato per oltre un secolo: realizzato ai primi del ‘900, pur sede della Cassazione, non ha mai avuto un titolo ufficiale, neppure quello di “palazzo di giustizia” che avrebbe voluto l’allora Guardasigilli Zanardelli.
Da oggi si chiama “Corte di Cassazione”. A seguito delle riforme (parte già attuate e parte in corso di approvazione al Senato) è un po’ meno “Corte Suprema” ossia terzo ed ultimo grado di giudizio a cui accedere pressoché sempre, ed invece un po’ più organo “nomofilattico”, che non è una malattia ma un termine tecnico per indicare la funzione di indirizzo interpretativo e possibilmente unificante che gli viene oggi assegnata.
Un augurio di buon inizio, sia alla nuova Corte che all’anno giudiziario.
Avv. Stefano Spinelli