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Sul conflitto politica-magistratura

Autore:
Spinelli, Stefano
Fonte:
CulturaCattolica.it

Resta altissima la tensione politico-istituzionale dovuta al conflitto politica-magistratura, dopo che la persona del presidente del consiglio è stata coinvolta in dichiarazioni rese da un pentito di mafia, che si sono subito sgonfiate per mancanza di riscontri, ma che sono state sufficienti a far temere il cataclisma; e dopo che lo stesso presidente ha dichiarato, partecipando al congresso del Ppe (il partito europeo di riferimento del Pdl), che in Italia la sovranità sta passando dal parlamento al cosiddetto partito dei giudici, con l’appoggio della corte costituzionale e del capo dello stato.
Pare si sia entrati in uno di quei labirinti fatti a cerchio ed i cui sentieri si avviluppano verso l’interno, e portano sempre più lontani dall’uscita. Più la componente politica si trova sotto smacco, impedita a governare al di fuori del corretto bilanciamento dei poteri, più pare reagire in modo scostante, con ciò creando ulteriore tensione.
Resta il fatto, però, che il presidente del consiglio ha il diritto-dovere di governare e di cercare di realizzare il programma politico per il quale è stato eletto dai cittadini: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei modi previsti dalla costituzione (art. 1 Cost.). Nessun condizionamento dall’esterno può essere tale da alterare il delicato meccanismo dei rapporti tra i poteri dello stato previsto dalla carta costituzionale, che non prevede affatto una sfiducia del governo per mano giudiziale.
Eppure, è successo in questi giorni. E ciò rappresenta una grave anomalia istituzionale.
I nostri padri costituenti non avrebbero probabilmente mai immaginato che le sorti dell’Italia e del suo governo liberamente e consapevolmente scelto dal popolo sarebbero state appese, per giorni, alle dichiarazioni di un cosiddetto pentito, rese ad orologeria dopo anni ed anni dal cosiddetto pentimento, de relato, ossia riguardanti fatti non appresi di persona, ma raccontati da altri. Il paese è rimasto col fiato sospeso in attesa di sapere “se Gaviano avesse confermato Spatuzza”. E, come da copione, è andata in scena la pièce teatrale che ha minato la sovranità popolare ed ha screditato l’Italia a livello internazionale. Si pensi a ciò che sarebbe successo in caso di riscontro positivo.
Non è solo un problema di gestione dei processi (bisognerà pur chiedersi per quale motivo e come sia stato possibile inscenare quello che pare un vero e proprio attentato istituzionale). Vi è un altro principio costituzionale continuamente disatteso, ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Troppo spesso i tempi ed anche i contenuti della politica paiono invece essere dettati dai soli avvisi di garanzia o dalle dichiarazioni di qualcuno. Un’intera generazione partitica è stata fatta fuori a suon di atti giudiziali, la storia probabilmente, e le sentenze definitive, ci restituiranno con maggior precisione il grado di attendibilità di tutta l’operazione; un avviso di garanzia nel ’93 è stato sufficiente (quanto meno come causa principale) a far cadere il primo governo Berlusconi, successivamente sentenziato innocente; il ministro della giustizia Mastella è stato costretto alle dimissioni, travolgendo il governo di cui era parte. Basta, insomma, lo stormir di foglia di una notizia di reato o di un’indagine in corso, magari dimenticata da anni in stand by e recuperata dal cappello magico, per determinare cataclismi a livello politico e ribaltoni di volontà popolari, in violazione del già richiamato art. 1 Cost.
Il mistero del processo”. È un piccolo ma interessante libello di Salvatore Satta, da cui cito: “Ma il processo? Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità, che lo scopo è l’attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più che la terra, gli errori dei giudici”.
Dietro queste considerazioni apparentemente sconfortanti sta un fatto abbastanza constatabile quotidianamente tra i cosiddetti “operatori della giustizia”. Ossia che la giustizia umana (di cui è capace l’uomo) è la giustizia processuale, quella risultante dal processo e dalle forme e regole in cui esso si sostanzia. Ora, se già è difficile rendere (e ricevere) una giustizia, la più giusta possibile, con gli strumenti umani che abbiamo, si immagini quale abisso di in-giustizia celi il fatto di prescindere addirittura dalle regole del processo e di sentenziare senza e prima di esso.
Se questo arbitrio è dannoso per ciascuna singola questione privata, lo è a maggior ragione, in rapporto alla sfera politica. Un utilizzo del potere giudiziale al di fuori dei canoni previsti determina un conflitto fra i poteri dello stato che altera la balance de pouvoir dell’ordinamento statale e richiede una soluzione.
Vanno in tal senso le proposte che il mondo politico è impegnato a trovare per salvaguardare sé stesso. Il lodo Alfano, approvato con legge ordinaria, è naufragato nell’incostituzionalità. Si è quindi proposto un lodo dal medesimo contenuto, ma da assumere con legge costituzionale, ipotesi che incontra due ostacoli, il primo di ordine politico, dovendo darvi il suo contributo anche l’opposizione (parte della quale si è comunque dimostrata disponibile a collaborare), il secondo di ordine tecnico, dovendo l’ipotesi superare di nuovo il vaglio di costituzionalità con riguardo all’art. 3 Cost. ed al principio di eguaglianza. Altra iniziativa è quella di reintrodurre l’immunità parlamentare, in funzione di un miglior bilanciamento dei poteri, che i nostri padri costituenti avevano originariamente previsto nell’art. 68 Cost. e che è poi stata tolta proprio sull’onda di mani pulite (ovviamente anche tale ipotesi prevede l’adozione con legge costituzionale). Più facile pare percorrere la strada del legittimo impedimento assoluto, introducendo una sorta di presunzione di impossibilità di partecipare ai processi da parte del presidente del consiglio in costanza di funzioni (dandogli così la possibilità di concentrarsi sul governo del paese, diversamente impedito dal numero anomalo di processi in corso).

Mentre scrivo queste note il presidente del consiglio è stato oggetto di una aggressione fisica (ritornano alla mente le immagini di Craxi insultato con il lancio di oggetti all’uscita dall’hotel). Il processo mediatico non è tanto quello che si svolge nei salotti di Vespa, ma è la condanna preventiva, a prescindere. In fondo, per alcuni, una sentenza inappellabile nei confronti del presidente del consiglio e del governo è già stata pronunciata, al di là dei riscontri dei pentiti o delle sentenze processuali dei giudici. In fondo, una parte del paese non riconosce la sovranità del popolo, avendo già condannato il presidente scelto come indegno a governare.
E’ probabilmente a questa deriva che occorre opporsi con tutte le forze recuperando il chiaro monito del capo dello stato di pochi giorni fa “va ribadito che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare”; e quello dopo l’aggressione, in cui invita le forze politiche alla responsabilità: “si torni a un normale e civile confronto fra forze politiche e istituzioni”. La responsabilità è comune a tutti, istituzioni, politici, giudici, mass media, e cittadini.

Avv. Stefano Spinelli

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