La gioia segreta dell’attesa
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“Eppure, proprio lì, qualcosa racconta/ di un nuovo inizio: nel fondo scuro/ quattro briciole di neve hanno scritto/ una coppa, un calice, una conca, un posto/ fatto per accogliere di nuovo, dare fiato/ e gambe a un nome ancora. Non lo sa/ nemmeno lui che cos’è questo posto caldo/ e buono che il mondo si è tenuto dentro/ dopo tutto questo tempo, non lo sa nemmeno/ lui che cosa è diventato adesso, che faccia/ ha preso, quale mano lo porta e lo sostiene,/ di nuovo, quale miracolo ritorna. Aspetta.”* E’ difficile descrivere l’attesa, si esprime in diversi modi, opposti, talora fecondi, talora vuoti. Siamo nel tempo dell’attesa, l’Avvento, che è insieme “venuta e presenza”, come indica l’etimo. È un tempo liturgico, cioè dell’uomo che riconosce che la sua vita si incontra con Dio, per cui il ciclo delle stagioni e il lavoro sono legati alla presenza di Dio nella storia. È rendere sacro il tempo e lo spazio. Pochi se ne ricordano. Eppure qualcosa ricorda sempre un nuovo inizio, come dice la poesia, anche se non ne sa identificare il volto e il nome, mette in rapporto i segni del presente con un mistero atteso. È inevitabile. Siamo strutturalmente attesa. Al contrario, la fretta cui sono sottoposte le nostre giornate rende spesso insopportabile e fastidiosa l’attesa. Lo ha ricordato anche il Papa ai Vespri di inizio Avvento. “Se si aspetta qualcosa, ma in questo momento non c’è nulla, se il presente cioè rimane vuoto, ogni attimo che passa appare esageratamente lungo, e l’attesa si trasforma in un peso troppo grave, perché il futuro rimane del tutto incerto. Quando invece il tempo è dotato di senso, e in ogni istante percepiamo qualcosa di specifico e di valido, allora la gioia dell’attesa rende il presente più prezioso […] e il futuro carico di speranza” . Da cosa dipendono queste due possibilità? Dal riconoscere il nostro bisogno, la mancanza che ferisce la nostra natura così che niente ci compie e soddisfa. C’è un anelito infinito in noi, tutti i nostri tentativi e il ragionevole indagare non sanno rispondervi. È un Altro che risponde. Ma se questa ferita non è riconosciuta, c’è il vuoto, il peso grave della noia e la dimenticanza di sé. Allora il dono dell’Avvento è la possibilità di tornare a noi stessi, di prenderci cura del nostro io che tra “quattro briciole di neve” aspetta un “miracolo”. Il mondo si tiene dentro qualcosa, “dopo tutto questo tempo”. Duemila anni dopo la nascita di Cristo, aspetta.
*Corrado Bagnoli, In tasca e dentro gli occhi, clanDestino, Raffaelli Editore, Rimini