Giudici e politica
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Reset. Punto e a capo. Ci sarebbe bisogno – mi pare – di ricominciare, di ripartire, di ristabilire regole condivise capaci di superare l’impasse giustizia-politica, di trovare una via d’uscita a quindici anni di altisonanti processi politici, da una parte, e di silenziosa giustizia quotidiana dimenticata all’angolo e spesso inefficace, dall’altra.
V’è una duplice esigenza, in materia di giustizia. A dire il vero vi è una miriade di problemi, ma già pensare di mettersi a risolvere due questioni vitali, sarebbe fare bingo. Chi potrebbe disconoscere l’esigenza di attuare il principio della ragionevole durata dei processi, la cui lunghezza – oltre a negare giustizia a molti cittadini – è causa di continue condanne per lo Stato italiano da parte della Corte europea e di ingenti indennizzi da sborsare ogni anno? Chi potrebbe dichiarare, senza derive ideologiche, che non esiste in Italia un conflitto istituzionale tra magistratura e politica? La sentenza è venuta ad assumere un rilievo sempre più politico, sia in ambito civile, con riguardo alla tendenza della giurisdizione ad assumere spesso funzione e natura di legge, in funzione suppletiva e sostitutiva del parlamento; sia in ambito penale, con riguardo alla funzione inquisitoria utilizzata spesso come arma impropria di determinazione dei tempi e della vita della politica.
Mi pare sempre più evidente lo stridore tra una giustizia “invadente”, con riferimento alle alte (ma anche alle meno importanti) sfere della politica; ed una giustizia “impotente”, invece, con riferimento alle concrete questioni da risolvere ogni giorno da parte dei cittadini. Sembra addirittura che il rapporto tra le due giustizie possa essere inversamente proporzionale. Ma entrambi gli aspetti citati sono frutto di un processo di deterioramento della funzione, di detournement de pouvoir (di sviamento di potere, come si direbbe in termine tecnico-amministrativo); un tale sdoppiamento pare essere degenerazione della funzione in entrambi i sensi.
Per questo, occorrerebbe una pausa di riflessione comune ed un colpo di reni di maggioranza ed opposizione per ridare fiato ad una giustizia in difficoltà.
Pare, invece, che si sia entrati in uno di quei labirinti fatti a cerchio, i cui sentieri si avviluppano verso l’interno, e portano sempre più lontani dall’uscita, sino all’implosione (che qui ovviamente si evoca solo per esorcizzarne l’esito).
Il tentativo di reintrodurre una sorta di scudo dalle ingerenze della magistratura per le più alte cariche dello Stato e specie per il presidente del consiglio (che è chiamato a difendersi in numerosi processi a suo carico durante il mandato, con una anomalia rappresentata dal numero elevatissimo degli stessi, più di cento, tutti intervenuti dopo il ’94) è naufragato come si è visto nella sanzione di incostituzionalità (peraltro con diversi giudici a favore invece del lodo).
E’ di pochi giorni fa, invece, la presentazione di un disegno di legge al Senato, contenente misure contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’art. 111 Cost. e 6 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (quello sulla cui base l’Italia viene spesso e volentieri sanzionata), che prevede il cd. “diritto ad un processo equo”, secondo il quale “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”, ma anche il principio generale per cui “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Entrambi i principi sono capisaldi della nostra democrazia e del nostro ordinamento giuridico (ma spesso vengono disattesi nei fatti).
Ebbene, il primo articolo del DDL contiene modifiche alla legge Pinto (L. 89/2001), al fine di migliorare la procedura e la quantificazione dell’equo indennizzo in caso di durata non ragionevole dei processi, introducendo una istanza di sollecitazione che la parte deve presentare nel processo (civile, penale o amministrativo) prima della scadenza dei termini di durata, in modo da salvaguardare non solo l’aspetto risarcitorio, ma anche quello acceleratorio del processo lungo, in quanto da detta istanza i processi godranno di una corsia privilegiata.
Il secondo articolo (ed è la parte più nota, anzi l’unica) riguarda i processi penali e prevede l’estinzione dell’azione penale, e quindi del processo, per violazione dei termini di ragionevole durata (fissati in due anni per ogni grado, a partire però dall’assunzione della qualità di imputato), con esclusione per i reati più gravi ed applicabile solo agli incensurati. La disposizione ha la funzione di produrre un obbligo di gestione virtuoso dei processi, al fine di imporre la loro conclusione in tempi ragionevoli, ed ha l’effetto collaterale (ma forse non secondario nelle intenzioni dei proponenti) di porre al riparo il governo ed il suo presidente dalle prossime scadenze processuali a suo carico (in previsione di una sentenza politica).
Ora, si tratta di disposizioni che non credo colgano nel segno e che non so fino a che punto troveranno la forza per imporsi: il principio è quello della coperta, se è corta è inutile tirarla da una parte o dall’altra, lascerà sempre scoperto qualche parte (le ultime riforme della procedura civile hanno cercato di migliorare i tempi processuali, unificando gli adempimenti, ma alla fine si arriva al nodo gordiano in cui deve essere assunta la sentenza e a quel punto i rinvii per le decisioni diventano lunghissimi). Occorrerebbe valutare bene l’effetto che dette disposizioni possono avere sui processi in corso.
Ciò che però non si condivide è il clima da cataclisma, da the day after, con il quale si accolgono dette proposte, la pregiudiziale politica che impedisce di affrontare “normalmente” ogni problema, nelle rispettive funzioni di proposta governativa da una parte e di sua critica anche costruttiva dall’altra (non è per gentleman agreements che si rivendica la necessità di una opposizione forte in parlamento).
D’altra parte si legga quanto segue: “il giudice dichiara non doversi procedere per prescrizione del procedimento quando… c) dalla dichiarazione di (apertura del dibattimento) sono decorsi più di due anni senza che sia stata emessa la sentenza che definisce il giudizio di primo grado; d) dalla sentenza di cui alla lett. c) sono decorsi più di due anni senza che sia stata pronunciata la sentenza che definisce il giudizio di appello…”
Non è il testo dell’attuale DDL sulle sentenza brevi, ma quello presentato al Senato il 26 luglio 2006 n. 878 (d’iniziativa dei senatori Brutti e Finocchiaro), nel tentativo di abrogare la cd. legge ex Cirielli (L. 251/2005). Il contenuto è il medesimo.
Prendiamole per quelle che sono: si tratta di proposte normative, migliorabili o comunque sostituibili da altre finalizzate a superare il duplice problema vitale della giustizia evidenziato all’inizio (senza barriere pregiudiziali).
Avv. Stefano Spinelli
Presidente della sezione di Forlì-Cesena
Unione giuristi Cattolici