Una famiglia alla prova del terrorismo: dalla fede il perdono
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«Ma cosa le ha dato la forza per affrontare il dolore che improvvisamente aveva investito lei e i suoi bambini?». La domanda di Enrica Pennati, che ha condotto l’incontro organizzato a Monza mercoledì 28 ottobre 2009 dal centro culturale Talamoni, a Gemma Capra è diretta, non offre possibilità di fuga. Ovvio il riferimento a quel giorno di maggio di 37 anni fa, quando questa donna si trovò sola con due bimbi piccolissimi e un terzo in gestazione a piangere il marito assassinato sotto casa. «Mi basta una sola parola: la fede. Una fede che non avevo mai sperimentato, non sapevo di avere», ha esordito Gemma Capra precisando di essere cresciuta in una «famiglia cattolica, andavo a Messa, facevo volontariato. Mi sentivo buona... ma non sapevo cosa fosse la fede». Gemma racconta con voce tranquilla in che modo nel momento della tragedia tutta la sua prospettiva di vita è cambiata.
«La fede non toglie la sofferenza, ma ho compreso che dovevo vivere e che il male non poteva vincere. Ho sentito che non ero sola e ricordo che chiesi al mio parroco di pregare assieme per la moglie e i figli di chi aveva ucciso mio marito».
La commozione nella sala Maddalena è quasi un fatto fisico. E ancora Enrica chiede a Gemma quali sono stati i criteri coi quali ha cresciuto i figli. «Ho voluto crescerli liberi da una cultura di odio, perché l’odio ti divora tutto e nega le cose belle del vivere – dice - L’odio e il rancore sarebbero stati una tragedia ulteriore per me e per loro». Una scelta, precisa poi, che ti porta a soffrire per le cose brutte, ma a gioire per il bello «e questo è il modo con il quale sono cresciuti».
“E cosa è il perdono?”, chiede ancora Enrica Pennati. «Perdono è un cammino, lungo e difficile – afferma - e lo si raggiunge con il cuore». E qui ricorda il necrologio che fece scrivere sul Corriere per il marito con la frase evangelica: “ Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. «Come mai Gesù non perdona lui direttamente?- si chiede e risponde - Perché era anche uomo e sapeva quanto è lungo e difficile il cammino del perdono. Chiedeva quindi al Padre di perdonare, lasciando all’uomo il tempo di fare il proprio cammino verso il perdono». A questo punto ovviamente si è inserito il ricordo dell’incontro al Quirinale con la vedova del ferroviere Pinelli. «E’ stato un atto voluto e sincero - ha detto - Ci hanno messe l’una contro l’altra per anni. Siamo riuscite a superare tutto questo e a darci la mano ed abbracciarci».
E più in generale sulla “Giornata della memoria” per le vittime del terrorismo ha affermato che il Paese deve recuperare gli insegnamenti di queste persone che sono tuttora una ricchezza per tutti. Ma non ci si deve fermare al passato, non serve una memoria che sia solo un compiangersi.
Il pubblico, oltre i limiti della capienza della sala, appariva in buona parte costituito da giovani che all’epoca dell’omicidio Calabresi non erano certamente nati. Utile l’intervento di Michele Brambilla che in modo stringato ma documentato ha riassunto i fatti, e il clima di quegli anni che solo successivamente furono definiti “di piombo”. «Quello di Calabresi fu il primo caso di omicidio politico dove il bersaglio era stato scelto con precisione. Un uomo fatto divenire simbolo e in quanto tale ucciso»: prassi poi ripetutasi in decine di casi.