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Sanaa, un'altra vittima del vivere all'occidentale

Fonte:
CulturaCattolica.it
Un’altra Hina, un’altra ragazza morta per non avere ubbidito, a regole e tradizioni troppo lontane dalla tradizione di suo padre, ma entrate a far parte della sua quotidianità.

Montereale Valcellina è l’ultimo paese della pianura padana pordenonese, meno di 5000 abitanti, un luogo ricco di storia, un paese laborioso e tranquillo, il luogo dove la famiglia El Katawi Dafani proveniente da Casablanca si è stabilita anni fa.

La famiglia è in Italia da 11 anni, padre, madre, tre figlie, la più grande Sanaa aveva 18 anni, le altre 7 e 4 anni.
Sanaa, una bella ragazza dai capelli neri, e dagli occhi grandi, aperti sul mondo, lavorava in un ristorante, si era innamorata di un uomo che aveva 13 anni più di lei e giorni fa era andata a vivere con lui.
El Katawi Dafani, 45 anni, padre di Sanaa in Italia aveva trovato lavoro come aiuto cuoco, una casa, una stabilità per lui e la sua famiglia, i colleghi e il datore di lavoro lo descrivono come una persona tranquilla, ma in questi 11 anni non aveva mai accettato le regole di convivenza di questo paese che pure gli aveva dato accoglienza e lavoro, e non sopportava che sua figlia si trovasse bene, fosse quella che tutti definiscono una ragazza normale.

Così il padre ha seguito i due ragazzi e li ha affrontati, il fidanzato di Sanaa non è riuscito a salvarla, la lama gli ha ferito le mani e l’addome e Sanaa è finita sgozzata dall'ira paterna e poi oltraggiata con una bottiglia rotta.

La madre della giovane, inizialmente sembrava avere descritto l’uomo come un padre-padrone, ma ora abita a casa dell’imam di Pordenone, sotto la protezione sua e del cognato e dichiara di aver perdonato il marito, della figlia ha detto: “forse ha sbagliato anche lei” forse, in quel forse, mi è sembrato di vedere l’unica flebile solidarietà espressa per sua figlia. Ma come può quella donna dire cose differenti da quelle che le suggeriscono?

E’ la solita storia, una donna che parla poco l’italiano, che ubbidisce da sempre agli uomini, che ha altre due figlie a cui pensare, chiederle di ribellarsi, di difendere la memoria di una figlia morta per lei è troppo, finirebbe sola, isolata da tutti e da tutto a combattere contro un mondo di uomini.

Così parla poco, sembra ripetere parole suggerite, chissà quali pensieri non pronunciabili le passano davvero per la testa, chissà cosa spetta in sorte a lei e alle sue due bambine, nate e cresciute in Friuli, dove mettere i jeans e truccarsi gli occhi non è disdicevole.

Il fidanzato di Sanaa dal letto d’ospedale dice che la religione non c’entra, si è trattato di un padre che non accettava l’indipendenza della figlia, la sua intraprendenza, un po’ come gli immigrati degli anni 60 che dal sud venivano al nord.
Già, forse, ma le donne del sud hanno iniziato a lavorare ad alzare la testa a cambiare pettinatura e abbigliamento e mentalità, gli uomini hanno finito per arrendersi e apprezzare.

Qui le cose sono più difficili, perché l’islam non separa la cultura che evolve dalla religione, e una donna che lavora e mette i jeans, una donna che s’innamora di un uomo non musulmano, non tradisce solo le attese di suo padre, ma della comunità tutta, tradisce Dio e questo non è tollerato.
A queste donne spetta un compito davvero duro e pericoloso, il compito di alzare la testa, di ribellarsi a un mondo che non le considera degne di parola, di scelta, che le vuole sottomesse e ubbidienti.
A noi spetta il compito di dare loro il nostro sostegno devono sapere che ci sono luoghi dove chi alza la testa, è aiutato, difeso, bisogna trovare il modo di far sapere loro che non sono sole, è l’unica possibilità per tutti, perché si avveri un cambiamento, perché la convivenza e l’integrazione siano vere.

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