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Il suicidio di Roberta Tatafiore

Fonte:
CulturaCattolica.it
"La donna è infine perfetta./Il suo corpo/Morto porta il sorriso del compimento/L’illusione di una greca necessità/Fluisce, nelle pieghe della sua toga,/I suoi piedi/Nudi sembrano dire:/Abbiamo camminato tanto, è finita

In questa nostra pazza società, dove i padri sono optional riproduttivi e educativi, dove l’autorità dei maestri è un rimpianto, dove maschio o femmina non è un modo in cui si nasce, ma una scelta consapevole, dove dissentire, è segno di razzismo o fobia, dove la libertà è la scelta su tutto sino all’estrema scelta di decidere quando morire, in questa società smarrita, una donna di sessantasei anni, Roberta Tatafiore, giornalista, scrittrice, femminista, ha scelto di morire, di pianificare la sua morte, di lasciare questo mondo scrivendo un diario di quest’ultima esperienza "La mia è stata una scelta", dice il suo ultimo biglietto, e anche se tutti parlano di un addio shock, a dire il vero pare proprio che in pochi osino trovarci qualcosa da ridire. Anzi, ‘passeggiando’ tra i blog, si possono trovare messaggi di “profondo dispiacere” come su – noidonne - per la quale Roberta Tatafiore aveva collaborato negli anni ’80 e ’90, ma anche molti messaggi di ammirazione per un gesto che a molti è sembrato “molto commovente”.

Sotto, sotto in qualche scritto si intravede anche un certo imbarazzo, per un gesto che si comprende non possa essere giustificato dal desiderio di autodeterminazione.

Molti si sono affrettati a scrivere che rispettano la sua scelta di essere libera sino al gesto estremo, forse perché se non sai dare un significato al morire, non ne sai parlare, quindi meglio trincerarsi dietro al rispetto per chi non essendoci più non può replicare.
Chi l’ha conosciuta la descrive come una donna senza compromessi, sul sito Donnealtri.it si può leggere un pezzo di Letizia Paolozzi: “Non era sola, malata, handicappata. Non aveva un tumore. Non viveva la vecchiaia come un dramma. Non era avvolta dal velo della depressione. Bella, vitale, carnale. Però Roberta Tatafiore si è uccisa. Per delle sue motivazioni. Con una sua grandezza. Compiendo un gesto di cui noi che, in tante e tanti l’amavamo, possiamo solo riconoscere la verità (...) So bene che le ragioni che potrei portare non sarebbero mai le sue ragioni. D’altronde, con quel gesto Roberta si è resa vulnerabile. (...) Si tratta, dunque, di ascoltarla. Con una attenzione e una cura più dolorosa del solito. Perché Roberta non era mai semplice”.

Già, non era semplice. Da Il Foglio apprendiamo che aveva scelto di morire in un albergo accanto a casa e che si è spenta in ospedale, la cameriera l’ha trovata ancora in vita e all’ospedale non hanno potuto salvarla.
Chissà se questo faceva parte del suo piano o se si sia trattato di un imprevisto, il solito imprevisto che riafferma che la vita in fondo non è nostra, ma che importa? Si attende un memoriale che dovrebbe arrivare ai giornali a giorni e forse anche per questo tutti vanno cauti nel pronunciarsi.

Chissà che dirà, la femminista che disse: "Trattiamo le prostitute come operai. Aboliamo la Merlin", che … scrisse “Sesso al lavoro. Da prostitute a sex-worker. Miti e realtà dell’eros commerciale“ (il Saggiatore) e “Uomini di piacere …e donne che li comprano“ (Frontiera), la donna che scrisse agli amici “state sereni” come se fosse possibile saper morta un’amica e far finta che nulla sia accaduto se non la sua volontà.

La sua scelta sembra voler essere la manifestazione estrema dello slogan femminista - IO SONO MIA– ma come allora, anche oggi è un manifesto di morte e non di libertà, qualcuno l’ha paragonata a Silvia Plath (la scrittrice nata a Boston nel 1932), che mandati i figli dai vicini, si suicidò aprendo il gas e mettendo la testa nel forno, qualche giorno prima aveva scritto la sua ultima poesia "Orlo".
Forse dietro a questa estremizzazione di una libertà che rende cadaveri, c'è la solitudine di donne intelligenti, sensibili, di belle persone che hanno creduto che riconoscere di avere un destino che sfugge di mano, fosse un privilegio che non si possono concedere coloro che del destino proprio si dicono artefici e preferiscono perire che abbandonarsi alla vita.
Incuranti di chi resta, di chi le ha sfiorate, incontrate, amate di chi si sforza di capire, di dare alla morte un nome che non le appartiene "libertà" ma sente questo nome stridere.

ORLO
La donna è infine perfetta.
Il suo corpo
Morto porta il sorriso del compimento
L’illusione di una greca necessità
Fluisce, nelle pieghe della sua toga,
I suoi piedi
Nudi sembrano dire:
Abbiamo camminato tanto, è finita.
Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente
Uno a ogni piccola
Brocca di latte, ora vuota
Li ha piegati
Di nuovo nel corpo di lei come petali
Di una rosa si chiudono quando il giardino
S’intorpidisce e odori sanguinano
Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.
La luna non ha nulla di cui essere triste,
fissando dal suo cappuccio di osso
è abituata a questo tipo di cose.
Le sue macchie nere crepitano e tirano.
Silvia Plath

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