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Il 'Tremonto' dell'Università

Autore:
Morresi, Assuntina
Questo è un grido di dolore, una richiesta di aiuto, e non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma tutti quanti, perché non esistono paesi sviluppati con università sottosviluppate

Come dice il mio amico Ugo, tempo qualche anno e torneremo all’Università medioevale, con i testi copiati a mano a lume di candela. Niente fotocopiatrici o stampanti, ma neanche l’energia elettrica. Pochissimi i docenti, ancora meno le sedi universitarie, l’insegnamento torna ad essere una vocazione e ci si dedica chi non ha famiglia. Questo lo scenario prossimo futuro: un’Università sul viale del Tremonto.

Ironia a parte, il problema è gravissimo. Questo è un grido di dolore, una richiesta di aiuto, e non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma tutti quanti, perché non esistono paesi sviluppati con università sottosviluppate: crescono – o crepano – gli uni e le altre, insieme. Sempre.

Cerchiamo di spiegare semplicemente cosa sta succedendo. Per vivere l’Università ha bisogno del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), erogato dal Ministero, che va soprattutto in stipendi. In questi ultimi anni le università considerate virtuose e meritevoli sono quelle che usano non più del 90% del FFO per pagare gli stipendi. Perugia, per esempio, è un’università virtuosa, perché spende l’82% del FFO per gli stipendi del personale.

I tagli del Tremonto prevedono una diminuzione del FFO di un miliardo e mezzo di euro dal 2009 al 2013, che non tengono conto delle situazioni locali (cioè del fatto che un’università sia stata o meno virtuosa), ma saranno uguali in tutt’Italia. L’effetto è semplice: in un paio di anni tutto il FFO servirà per pagare gli stipendi, e probabilmente non basterà. In tantissime università, ad esempio, nel 2010 più del 100% del FFO andrà per pagare gli stipendi dei dipendenti. E quindi sarà impossibile chiudere il bilancio di previsione. Anche quelle adesso virtuose (come Perugia) non potranno esserlo piu’. In queste condizioni, per pagare gli stipendi bisogna ricorrere a prestiti bancari (come stanno già facendo altre università), e se si continua così magari si comincerà a pensare di tamponare la situazione con vendite di immobili.

D’altra parte, oltre ai tagli c’è il problema del turn over: nei prossimi tre anni si potrà assumere una persona solo ogni cinque pensionamenti. Questo significa che i docenti diminuiranno, i corsi non potranno essere coperti, e molti corsi di laurea dovranno chiudere, perché mancherà il numero minimo di docenti per tenerli aperti, indipendentemente dagli iscritti. Chiaramente, di assumere giovani non se ne parla neppure, almeno finora.

C’è solo una parola per spiegare tutto questo: collasso. Fine. Kaputt.

Il problema non è tanto l’obiettivo della manovra, e cioè ridurre drasticamente le spese in un sistema che certo ha anche le sue colpe – e non poche – per la crisi in cui versa. Sappiamo tutti che certi atenei, o certe facoltà, hanno sprecato risorse umane ed economiche senza produrre niente di buono, e se questa è l’occasione per riorganizzare l’università, siamo i primi a dire “io ci sto”.

Il problema è il metodo: in questo modo l’Università muore, perché si dovranno per forza chiudere corsi e forse facoltà, tenendo conto solamente di fattori economici, e non di scelte programmatiche. Ci sarà una selezione darwiniana degli atenei, alcuni sopravviveranno e altri no, solo in base al fattore economico.

E non mi si venga a dire che per trovare i soldi possiamo fare le fondazioni: come spiega bene questo pezzo del sussidiario.net, la norma che regola la formazione delle fondazioni universitarie è praticamente inapplicabile.

Adesso servono soldi: pochi, maledetti e subito.

Pochi (non ne servono poi tantissimi, per l’urgenza iniziale): nei prossimi anni gli aumenti automatici degli stipendi – che non decidono le università, ma l’economia centrale – dovrebbero essere dati dallo stato, e non devono essere presi dal bilancio delle università. Dal 1993, infatti, lo stato dà un fondo fisso di FFO, e gli aumenti degli stipendi l’università è obbligata a pagarseli da sola.

Maledetti: i tagli non possono essere uguali per tutti. Il governo calcoli un rapporto fra docenti/non docenti/studenti ottimale da raggiungere, per il quale è disposto a garantire gli stipendi, e lo inserisca in un piano di programmazione triennale, mettendolo come obiettivo. Sarà responsabilità delle singole università fare le scelte di come tagliare e cosa promuovere.

Subito: non c’è da perdere tempo. L’anno prossimo non si riuscirà a chiudere il bilancio di previsione, la faccenda è grave.

Bisogna muoversi, se vogliamo evitare il definitivo Tremonto dell’Università.

Muoversi non significa sfasciare, distruggere, ma proporre e tentare di costruire. Per questo, oltre a quanto detto sopra, invitiamo alla lettura del documento di Aquis, l’Associazione degli Atenei piu’ produttivi.

Per aggiornamenti, consultate il sito Universitas University.

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