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Filippo Facci invoca una legge per le mille Eluana

Fonte:
CulturaCattolica.it
Oggi su Il Giornale, Filippo Facci scrive "ma di che accidente ha ancora bisogno, questo Paese, per accorgersi che serve una legge per distinguere tra cura e accanimento terapeutico? Per distinguere tra eutanasia e testamento biologico? Tra consenso informato e suicidio assistito? Tra casino e civiltà? Ci vuole fegato, ci vuole il coraggio dell’ignavia per dire che una nuova legge non serva".
Il rischio è che una legge serva solo a metterci il cuore in pace, a fare di tutta l'erba un fascio, una cosa è l'accanimento terapeutico, altra è l'alimentazione, siamo sicuri che le Eluane e le loro famiglie abbiano bisogno di una legge e non invece di una condivisione umana? Di qualcuno che sappia abbracciare queste vite, condividendo con le famiglie la fatica di vivere?

Caro dr. Facci, non sono una giornalista “vera”, anche se curo una rubrica su una radio web, scrivo per un sito internet e ho come molti italiani un blog, per questo un po’ temevo di mettermi a discutere con lei, ma so cosa vuol dire cincischiare davanti ad un argomento, per trovare le parole giuste che non siano fraintese, che non feriscano chi non si vuol ferire eppure, davanti a certe vicende non si può tacere.
Non si deve giudicare, non si deve sentenziare, ma lasciarsi interrogare dalla realtà è un dovere.
Proprio ieri mi hanno chiesto di andare ad incontrare una giovane donna che vive come Eluana a causa di un parto finito male, lei vive in famiglia e io cincischio davanti a questa proposta perché so che mi obbligherà ancora una volta a guardare in faccia il mondo reale, quello di persone semplici che amano una figlia, l’amavano quand’era piccina, quando faceva la sposa e la madre, e ancora di più la amano ora, che ha di nuovo bisogno di cure, d’attenzioni, di tutto e che in cambio può solo dare un battito di ciglia, un sussulto che solo chi la ama sa cogliere.
Però ci andrò, lo devo a loro, e a me, se voglio essere seria con le cose che incrocio sul cammino.
Sono giusti i richiami che da più parti giungono a non strumentalizzare il “caso Eluana” a rispettare l’amore e il dolore di un padre, che non dubito è convinto di avere fatto la cosa giusta.
Però io dico che per un Welby e una Eluana, ci sono tante altre persone, che testimoniano, e la testimonianza non è un’opinione ma un fatto, che quando non ci sono macchine da staccare, quella vita fragile è prima di tutto un interrogativo sul senso della nostra vita.
Salvatore Crisafulli miracolosamente uscito dal coma vegetativo, dico miracolosamente perché nessuno ci avrebbe scommesso un penny su quest’ipotesi, scrive una lettera che non può lasciaci indifferenti, non può non farci interrogare, noi diciamo che queste persone incatenate al loro corpo, non sentono, non capiscono, non amano, lui scrive: ”Cara Mamma, quando mi coprivi di baci e di preghiere, anch’io avrei voluto stringerti quella mano rugosa e tremante, ma non ce la facevo a muovermi, né a parlare, mi limitavo a regalarti lacrime anziché suoni. Erano lacrime disprezzate da celebri rianimatori e neurologi, grandi “esperti” di qualità di vita, ma era l’unico modo possibile di balbettare come un neonato il mio più autentico inno all’esistenza avuta in dono da te e da lui”.
Poi ascolto suor Albina che si prende cura di Eluana come di una figlia e chiede che le sia lasciata la possibilità di accudirla, e l’esperienza di una comunità della periferia milanese che si è fatta carico di assistere una persona in coma vegetativo, andandola a trovare, accudendola, condividendo il dolore e la fatica, e non posso fare a meno di chiedermi se dietro al desiderio di liberare dalla loro fragile vita queste persone, non ci sia in realtà la nostra solitudine e la nostra paura davanti alla fatica e al dolore.
In questo periodo sulla riviera Ligure, a Borghetto Santo Spirito, soggiornano gruppi di ragazzi disabili in vacanza con l’Unitalsi.
Ci sono persone down che camminano goffamente, ma che sanno nuotare, cantare e scrivere poesie, ma ci sono anche persone che hanno la spina dorsale così contorta che stare seduti o stesi per loro è in ogni caso un problema, con le mani inutilizzabili persino per grattarsi il naso, che dipendono da altri per mangiare, bere, fare pipì e per tutte quelle azioni quotidiane che noi che stiamo bene riteniamo banali.
Anche se quell’uomo contorto ti riconosce dalla voce, quando arrivi non può dirti nemmeno ciao e devi conoscerlo bene per interpretare i suoi sguardi.
E non posso fare a meno di temere che prima o poi un giudice pietoso, sentenzi che quell’uomo che non sa parlare, che per bere ha bisogno della cannuccia, che non può grattarsi il naso e ha assoluto bisogno delle cure di un altro uomo per essere mantenuto in vita, sia un uomo a cui si può sospendere l’alimentazione.
Capisce perché questa volta non sono d’accordo con lei?
Io credo che non si risolva il problema “mettendo ordine” facendo una legge sul testamento biologico, perché quando stai bene dici e scrivi cose che, quando stai male poi non puoi ritrattare.
Credo che si tratti di ricominciare a condividere l’umano, perché la sofferenza e le fatiche a cui la vita a volte ci costringe possono essere condivise, persino valorizzate, ma non cancellate.
Con stima.
Nerella Buggio.

Una legge per le mille Eluana
di Filippo Facci

Son qui da mezz’ora che cincischio per trovare le parole giuste, e allora al diavolo le parole giuste, neanche la morte di una figlia in fondo è un pranzo di gala: e allora dico subito, sul caso di Eluana Englaro, che provo una forma di disprezzo per tanta classe politica e per tanti miei colleghi spesso ottusi, pavloviani, più semplicemente ignoranti su questo tema.

Quale tema, poi? Ecco il punto: perché il tema che viene sviscerato in tante opinioni che ho letto, in realtà, non viene sviscerato per niente, la prosa resta generica, precotta, «i confini della vita» e dintorni, è il temino bioetico imparato a memoria da tanti politici da intervista telefonica e da tanti opinionisti polivalenti che mica si aggiornano, mica studiano, mica entrano più di tanto nel merito del singolo caso: alla fine scrivono sempre lo stesso articolo e ogni volta lo travestono: i politici non si muovono dai loro palazzi e gli opinionisti dalle loro scrivanie. I princìpi-cardine restano astrattamente sempre quelli, e chi se ne frega del famoso Paese reale, ossia il Paese che in stragrande maggioranza (lo dico alto e forte e ho le mie fonti, non so voi) è assolutamente favorevole al padre di Eluana Englaro e alla sua battaglia: non è spaccato, non è bipolarizzato, perlomeno su questo non lo è. Ma il disprezzo di cui parlavo non è per le opinioni meramente diverse dalle mie, bensì per la nutritissima brigata di chi alla fine del suo temino, del suo ragionamentino etico, in sostanza dice che occorre fare questo: niente.

Che cosa dice di fare, la Chiesa? Niente: ma è il suo lavoro, potremmo dire. E allora che cosa vuol fare il centrodestra? Niente. Che cosa propongono tanti corsivisti apparsi anche su questo giornale? Niente. Non c’è nessun problema, in Italia: solo pochi casi Welby o Englaro sui quali esercitarsi ogni tanto. Ma dico io: ma di che accidente ha ancora bisogno, questo Paese, per accorgersi che serve una legge per distinguere tra cura e accanimento terapeutico? Per distinguere tra eutanasia e testamento biologico? Tra consenso informato e suicidio assistito? Tra casino e civiltà? Ci vuole fegato, ci vuole il coraggio dell’ignavia per dire che una nuova legge non serva, ci vuole pelo sullo stomaco per sostenere che siano sufficienti gli articoli 13 e 32 della Costituzione laddove parlano della libertà personale e del diritto dei cittadini di non farsi somministrare trattamenti sanitari contro la loro volontà.

Ma che vi credete, che lo scontro sia tra i favorevoli e i contrari all’eutanasia? Lo scontro, impari, è tra chi vorrebbe far qualcosa e chi invece niente. Voi fate come volete: poi non dite però che la Magistratura occupa gli spazi della politica, dite semmai che la politica lascia dolosamente scoperti degli spazi di cui la Magistratura non può infine non occuparsi, dite che l’ormai fisiologico ritardo culturale del nostro Parlamento non fa che produrre contrapposizioni ideologiche che attizzano magari il nostro prezioso dibattere sui giornali, come no, ma affianco del quale il nostro Paese, il famoso Paese reale, deve intanto cavarsela da solo: deve lasciare al grigio degli ospedali la scandalosa clandestinità dove il decesso di centinaia di migliaia di pazienti (centinaia di migliaia di pazienti) è accompagnato da un intervento segreto e non dichiarato dei medici. Lo dico a certi cattolici: vi fidate almeno del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano? Ebbene, un suo studio facilmente reperibile ha spiegato che il 3,6 per cento dei medici ha praticato l’eutanasia di nascosto e il 42 per cento (ripeto: 42 per cento) la sospensione delle cure di nascosto: anche perché senza telecamere in giro non è poi così difficile.
La rivista scientifica Lancet sostiene che il 23 per cento dei decessi, in Italia, è stato preceduto da una decisione medica, e che il 79,4 per cento dei medici è disposto a interrompere il sostentamento vitale. Di nascosto, ovvio: ma una nuova legge non serve, giusto? Come dite, non credete a Lancet? Pensate che i dati siano altri? Perfetto: si fanno commissioni su qualsiasi idiozia, in Italia, ma un’indagine conoscitiva sul fenomeno non interessa a nessuno e l’ipotesi di farne una su questo è stata bocciata dal Parlamento nel dicembre 2006, e non so a voi: ma a me non sembra una questione di poco conto il sapere se il decesso di centinaia di migliaia di persone, nel mio Paese, sia accompagnato o no da un intervento non dichiarato dei medici. Invece si preferisce far finta di niente sinché non capita a noi, a una persona cara, ed è questo che disprezzo: che le nostre ignavie legislative generano sofferenza. La chiedono i medici, i magistrati, il Consiglio superiore di Sanità: macché, niente legge in Italia, unica in Occidente, anche perché intanto la parte più antilibertaria del Paese vede eutanasia dappertutto e usa menzionarla di continuo per confondere le acque: l’eutanasia c’è in mezza Europa, è vero, ma qui da noi non la vuole praticamente nessuno, non è di eutanasia che si parla, chi continua a nominarla non fa che pescare nel torbido. L’eutanasia è il dare la morte a una persona lucida e malata che espressamente la chieda, mentre il testamento biologico, quello che in Parlamento fingono di discutere da anni, è la dichiarazione dei trattamenti sanitari che vorremmo o non vorremmo ci fossero applicati nel giorno in cui, da malati, non fossimo più in grado di decidere. Sempre che non si preferisca, come oggi, che la sofferenza nostra e dei nostri cari sia risolta clandestinamente oppure discussa nelle nostre preziose opinioncine sui giornali.

Discussa da chi a margine del caso Englaro alza il ditino e declama, dalla sua scrivania, solo ciò che non va fatto. Ma io rovescio la domanda e gli chiedo: dimmi, che cosa andava fatto, che cosa va fatto? La so la risposta: niente. Niente: era una precisa corrente di pensiero, tempo fa, anche nelle caverne.
Filippo Facci

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