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Casa di cura Santa Rita: un caso di "malaumanità"

Fonte:
CulturaCattolica.it
Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.

Alla povera Santa Rita s’è piantata un’altra spina in fronte a sentire cosa accadeva nella Casa di cura Milanese che si fregia del suo nome.

Leggo sul sito della casa di Cura Santa Rita di Milano
1946 – 2006 - da 60 anni vi siamo vicini.

Già, sessant’anni di cure, di lavoro, di attenzione verso chi soffre, poi arriva un gruppo di farabutti e scopri che le buone intenzioni di chi sessant’anni fa ha fondato la casa di cura sono andate in malora, tradite, da chi nella persona malata vedeva non l’uomo sofferente, ma solo un’occasione per truffare la collettività.

Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.
Ora un collega del medico arrestato, afferma che tutti sospettavano che il primario Brega Massone avesse metodi per così dire, poco ortodossi, ma nessuno ne aveva prove certe.

Leggo sui quotidiani che Pier Paolo Brega Massone, il primario di Chirurgia toracica arrestato con accuse pesantissime, all'età di dieci anni è stato adottato dopo la morte dei genitori in un incidente, da un noto e stimato Chirurgo.
Del padre adottivo si ricorda che era primario a Stradella ed aveva ricevuto anche un'onorificenza dalla regina d'Inghilterra perché in battaglia aveva curato dei soldati di sua Maestà, anche se erano nemici. Insomma, un uomo che credeva nella missione del medico.
Ed è con questo uomo come esempio che Pier Paolo Brega è cresciuto, desiderando di imitarlo, e studiando e lavorando duramente per farcela, ma poi la chirurgia da missione deve essere diventata altro.

Più ci penso e più mi convinco che non siamo in presenza di un caso di malasanità, dove l’incuria, la distrazione, la mancanza di personale, portano i medici a sbagliare, no, qui è peggio, siamo in presenza di un caso di “malaumanità”, persone che hanno studiato e faticato duramente per accedere ad una professione che rende chi la fa – custode della vita altrui – e hanno tradito la fiducia di chi, malato, metteva la propria sorte nelle loro mani.
Per avidità di denaro o di potere, non importa.

Tutti noi, quando entriamo in ospedale, ci togliamo gli abiti e ci mettiamo un pigiama, diventiamo fragili, bisognosi d’attenzioni, temiamo di diventare un numero, quello del nostro letto.
Attendiamo il medico che fa il giro delle visite la mattina, scrutando ogni sua smorfia, interpretandone i silenzi, i sorrisi, le parole buone o le battute scherzose.
Se poi, ad essere malato è qualcuno a cui vogliamo bene, il medico diventa il tramite con il domani, colui che può darci speranza, confidiamo nelle sue competenze, nella sua esperienza e nella sua umanità.

I medici, anche quelli indagati, hanno di certo pronunciato il giuramento di Ippocrate:

"Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro:

1. Di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;
2. Di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale…

Allora domando - cosa fa diventare dei bravi medici, degli spietati affaristi? La cupidigia? La bramosia di potere? Il desiderio di sentirsi padroni della vita altrui?

Credo che tutto inizi con l’allontanamento dal mistero rappresentato dalla sofferenza, con lo smarrire lo sguardo pietoso nei confronti di chi ti sta di fronte, nello scordare che la mano del chirurgo è il tramite con cui un Altro agisce.
Quando s’inizia a vedere solo la malattia e non più il malato, il tumore e non gli occhi di chi l’ha in corpo, allora il cinismo prende il sopravvento.

Scriveva un medico, laico, divenuto santo, San Giuseppe Moscati:

“Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità.”

Ecco, se il medico non si fa un po’ fratello, se non guarda più in faccia il malato come il tramite tra il Mistero e lui, inevitabilmente non ci saranno motivazioni per cui un vecchio che intanto morire già deve, nel suo perire non debba portare guadagno.

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