Mario Canessa, giusto tra le nazioni
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La storia dei giusti è spesso una storia particolare per non dire strana. E quella di Mario Canessa non sfugge alla regola. A 91 anni riceve dallo Stato di Israele il riconoscimento di “Giusto fra le Nazioni”, il più alto dello Stato ebraico, e dallo Stato italiano, direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor civile. Forse come appartenente alla Polizia di Stato gli poteva essere riconosciuta quella al valor militare.
I fatti per cui gli è stato concesso questo riconoscimento risalgono ad oltre 60 anni fa, quando Mario Canessa, agente di Pubblica Sicurezza, nel 1943 aiutò un gruppo di ebrei, in Valtellina, mettendo a rischio la propria vita, a fuggire in Svizzera. Alcuni di questi ebrei sono ancora vivi e venuti a conoscenza che il loro salvatore era ancora vivo lo hanno voluto incontrare e ringraziare. Tra questi Lino De Benedetti che all’epoca aveva 9 anni e Noemi Gallia, allora sedicenne. Ma anche nel volterrano, città in cui Mario Canessa è nato, anche se è livornese di adozione, ebbe modo di mettere al sicuro il dottor Emerico Lukacs, di origine ungherese, il cui figlio Vittorio vive ancora a Pontedera, dove dirige un avviato studio di architettura.
Per valutare appieno il comportamento di Mario Canessa bisogna ricordare che contemporaneamente alla sua azione di salvataggio, suo fratello si trovava prigioniero in Germania. Se avesse consegnato ai tedeschi uno o più ebrei suo fratello sarebbe stato rimesso in libertà; Mario Canessa questa possibilità non la prese neppure in considerazione. “Sa - mi ha detto – io sono molto religioso, così come lo era mia madre; non dissi nulla neppure a lei, tanto sapevo quali erano le sue idee e quale sarebbe stata la sua reazione”. In Mario Canessa prevalse l’imperativo categorico su quello ipotetico, l’etica delle intenzioni e della purezza su quella delle conseguenze e della convenienza. Egli è uno di quei giusti su cui si regge la salvezza del mondo, e come tale lo dobbiamo onorare.
Finita la guerra Mario Canessa si laureò in Scienze Politiche, divenne funzionario della Polizia di Stato ed arrivò ai vertici della carriera con la carica di Dirigente Generale al Ministero degli Interni: di quello che aveva fatto si dimenticò.
Nel giardino dei giusti a Gerusalemme, nel museo Yad Vashem, ora che il ricordo è riemerso, a Mario Canessa sarà dedicato un albero e una targa a perpetuo ricordo di ciò che ha fatto; lì sarà in buona compagnia: 22.000 giusti di tutto il mondo fra cui circa 500 italiani. Fra essi molti sacerdoti e membri delle forze armate italiane: carabinieri e poliziotti che agirono secondo coscienza, sollecitudine e amore fraterno verso il prossimo, contravvenendo le leggi dello stato fascista. Fra i più famosi Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci, per il quale è in corso una causa di beatificazione.
Mi auguro che Mario Canessa integri queste mie parole con il racconto diretto di ciò che fece a quel tempo.
Io vorrei invece fare alcune considerazioni più generali.
Mario Canessa è un uomo profondamente religioso, che pratica quella grande, somma virtù che, per la tradizione giudaica e cristiana è l’umiltà. Di quello che aveva fatto, che gli era capitato di fare non aveva mai parlato con nessuno. Probabilmente, come ebbe a dire Giorgio Perlasca, di fronte ad uomini trattati peggio di bestie, gli era sembrato naturale aiutarli, non si era posto troppe domande sulle leggi dello Stato, sulle conseguenze dei suoi comportamenti.
Mario Canessa, come ho detto è profondamente credente, cattolico, cavaliere del Santo Sepolcro. Può avere influito questo nel suo comportamento?
Il 14 marzo del 1937 (Se non sbaglio all’epoca Mario aveva 20 anni) Pio XI promulgò una lettera enciclica, indirizzata ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania. Questa enciclica, eccezionalmente scritta in tedesco, anziché in latino, era la “Mit brennender sorge”, che possiamo tradurre “Con viva (letteralmente bruciante) ansia” Nel capitolo 8 “Riconoscimento del diritto naturale” si afferma che “E’ una caratteristica nefasta del tempo presente il voler distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina…Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna”. Più sotto conclude: “ Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale”.
Sono parole inequivocabili, su cui ancora oggi, farebbero bene a riflettere quanti criticano il ricorso di Benedetto XVI al rispetto del diritto naturale, che per il mondo ebraico sono i sette comandamenti noachici, la prima alleanza dopo il Diluvio universale con Noach, che si possono riassumere nell’istituzione di magistrati, e nella probizione del sacrilegio, del politeismo, dell’incesto, dell’omicidio, del furto, dell’uso delle membra di un animale vivo (Sanhedrin 56 b).
Mario Canessa molto probabilmente non conosceva l’enciclica papale (aveva solo 20 anni) all’epoca della sua promulgazione; ma qualche anno dopo di fronte all’alternativa se obbedire ad una legge ingiusta, oppure alla legge naturale o di Dio, non ebbe il benché minimo dubbio. Nel contrasto fra l’uomo e Dio la tradizione e l’insegnamento religioso prevedono esplicitamente la disubbidienza. Ecco perché sono convinto che la sua fede lo abbia indirizzato naturalmente e senza tentennamenti a testimoniare il bene e a contravvenire ad una legge malvagia.
Erano quelli momenti terribili nei quali non era più possibile non capire, sfuggire ad una scelta; girare la testa da un’altra parte era già uno scegliere. Dice il Talmud che chi salva una vita salva il mondo; salvando una vita non si salva solo la persona ma anche coloro che discenderanno nelle generazioni future. Nel memoriale di Yad Vashem fra i 6 milioni di vittime innocenti è ricordata la morte di un milione e cin- quecentomila bambini. Mario Canessa appartiene perciò a quella schiera di giusti, la cui esistenza assicura la salvezza del mondo.
Ora due parole su che cosa è il riconoscimento di giusto tra le nazioni e la sua straordinaria importanza.
Presso il Memoriale di Yad Vascem a Gerusalemme è insediata la Commissione dei Giusti, il primo organismo del Novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Moshé Bejski, che ne era il presidente, ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista. Ripeteva con ossessione agli amici: “non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei”.
In realtà non era interessato alla perfezione degli esseri umani, alle motivazioni che li avevano spinti a salvare i loro simili. Voleva solo ricordare chi aveva tentato, di fronte ad un male estremo, autorizzato dalla legge degli uomini, di salvare anche una sola vita, chi era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Moshè amava gli uomini, non cercava i “santi”.
Era uno dei 1.200 inseriti nella famosa lista di Schindler. Questo legame fra Bejski e Schindler sta a fondamento dell’elaborazione di un concetto totalmente nuovo: la memoria del bene durante un genocidio.
Moshè era inquieto perché temeva che si ripetesse la solitudine in cui era sta lasciato chi aveva saputo sfidare le leggi del male. Forse troppi ebrei si erano dimenticati di chi li aveva salvati. Temeva la ingratitudine dei sopravvissuti, la leggerezza della memoria. Non poteva accettare che ciò accadesse. Aveva capito che l’esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle, salvando nel contempo l’uomo universale, creatura divina. Ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va salvato dall’oblio, difeso nella memoria.
Recentemente, al Meeting di Rimini, un sacerdote milanese, don Giovanni Barbareschi, di poco più giovane di Mario Canessa, anche lui “Giusto fra le Nazioni”, allievo del Beato Ildebrando Schuster, cardinale di Milano, ebbe a dire. “A differenza di molti che hanno combattuto, anch’io ho fatto la Resistenza, ma l’ho fatta salvando delle vite anziché distruggerle” Non voglio dare giudizi su chi abbia adempiuto meglio al proprio dovere. Poiché personalmente propendo per la vita e per la sua sacralità assoluta mi piacciono molto di più quei resistenti che come Mario Canessa ha scelto di salvare la vita.
Ho seguito l’insegnamento di Moshè Bejnski: “non un solo giusto deve essere dimenticato”. E, con la stessa umiltà di Mario, ho trasmesso alle autorità dello Yad Vashem i documenti che hanno consentito di ricordare anche questo “Giusto”.
I documenti che pochi anni fa Mario Canessa, che in tutti questi anni si era confidato solo con il suo amico Raul Orvieto, aveva tenuto gelosamente nascosti.