Una storia italiana
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Agli inizi degli anni 70, l’impresa edile dove lavorava mio padre fallì.
Così lui e altri suoi compagni di lavoro si trovarono per strada.
Siccome le disgrazie non vengono mai sole, mio padre si ammalò e passò molto tempo in ospedale.
Quando si riprese, non riuscendo a trovare lavoro, decise di mettersi in proprio con un amico, facevano piccole ristrutturazioni, rifacevano i tetti alle case, ampliamenti.
Il loro mezzo di trasporto era il motorino, uno blu e uno verde, caricavano secchi e assi sulle spalle e via, lavoravano il sabato e anche la domenica mattina.
Di quegli anni ricordo la fiducia, si respirava la certezza che poteva solo andare meglio, che dopo la stufa a carbone e quella a cherosene era il tempo dei termosifoni e che la fame patita da bambini era un ricordo con cui ammonire i figli che non l’avevano assaporata.
La domenica mio padre mi portava in giro in bicicletta e mi indicava con il dito le case dove aveva lavorato.
“Lì abbiamo rifatto gli intonaci, qui abbiamo rifatto il tetto”, mi faceva vedere il cantiere dove stava lavorando, sul punto più alto del tetto sventolava la bandiera italiana, voleva dire che a fine lavori il committente avrebbe pagato la cena, e così era, ma era anche un segno d’orgoglio.
Qualche anno dopo, con un socio, decise di fare il grande passo.
Comperarono un pezzo di terra, e vi costruirono 4 appartamenti, ero piccola e solo in parte coglievo le preoccupazioni e le paure di mio padre e mia madre.
Ricordo però la riconoscenza di mio padre nei confronti di chi lo aveva aiutato aspettando i pagamenti, in attesa che lui vendesse gli appartamenti per far fronte al rischio d’impresa, si trattava di fiducia sulla parola, ma non era mai tradita e mio padre a distanza di 40 anni ancora è riconoscente a quell’imprenditore.
Si respirava aria di rivincita, di fiducia, di passione per il proprio lavoro, non ho mai sentito mio padre lamentarsi per le troppe ore lavorate, lo diceva con orgoglio - sono in piedi dalle … - e quando raccontava, i camion di cemento e mattoni scaricati a spalle, non c’erano muletti e mezzi meccanici, sentivi nelle sue parole l’orgoglio dell’uomo forte, di chi sa di poter contare sulla sua forza, sulle sue mani, sulla sua voglia di fare, sulla fiducia della gente, della banca, dove entravi con gli abiti sporchi, il basco in testa e i chiodi in tasca, ma conoscevi tutti e il direttore sapeva di poterti dare fiducia.
Pensavo a queste cose in questi giorni, camminando tra gli stand della terza edizione del matching che si è conclusa mercoledì 21 novembre 2007.
Matching è il grande evento per il business, organizzato alla nuova fiera di Milano, dalla Compagnia delle Opere per dare una concreta opportunità di sviluppo alla piccola e media impresa.
Viviamo in continua emergenza, respiriamo immobilismo, pessimismo, nei confronti dell’impresa c’è solo diffidenza, come se il profitto, il fare impresa fosse una cosa negativa, di certo una cosa poco onesta.
Ai giovani si indica il posto fisso come una meta, incuranti del mercato del lavoro che cambia, L’impresa viene vista come un male di cui non si può fare a meno e non come un’occasione per tutti, per chi fa impresa, per chi lavora nell’impresa e nell’indotto e per il paese intero.
Come se le preoccupazioni, il rischio, la responsabilità nei confronti di chi lavora non fossero altro che manifestazioni di egoismo e di arrivismo.
Invece io credo che FARE IMPRESA abbia un valore sociale, sia per tutti, per chi la fa, per chi ci lavora e per chi vede l’impresa crescere, è un antidoto contro il nichilismo, perché l’impresa è un modo di guardare al futuro, di pensare che si può fare, migliorare, che si possono inventare cose nuove, strategie nuove, che si deve guardare il mercato con altri occhi, se il mondo cambia, l’impresa si adegua, inventa dinamiche nuove, l’impresa è una delle medicine per oltraggiare e combattere il disfattismo, per educare al valore dell’impegno e del lavoro.
Pensavo a questo guardando gli stand del matching, i grandi partner, ma anche i tanti piccoli imprenditori, orgogliosi del loro olio, delle loro arance di Sicilia, degli abiti su misura ma anche della loro tecnologia, dei prodotti di nicchia o delle loro invenzioni, imprenditori consapevoli che siamo in un’epoca in cui non si fa più impresa con due motorini e con la buona volontà, ci vogliono nuove modalità, nuove alleanze tra imprenditori, bisogna assumersi nuovi rischi e sondare nuovi mercati, puntare sulla formazione e sull’innovazione, ma il gusto di fare impresa è sempre lo stesso.
Se anche la politica e la società, riuscissero ad assaporare a recuperare questo “gusto” questa coscienza, ne gioverebbe il paese intero.
Ecco perché chiedere un fisco più giusto, per famiglie e imprese non è un atto di egoismo verso il paese, come qualcuno dice, un gesto di chi non comprende che bisogna tirare la cinghia.
Il fisco ai livelli attuali, è inaccettabile troppo elevato e non è colpa dell’impresa che non vuole “ridistribuire il reddito” ma dei troppi costi di uno una pubblica amministrazione di uno Stato che fa pagare a noi le sue inefficienze, uno stato che munge i cittadini e le imprese, incurante di togliere risorse per nuovi investimenti che servirebbero alla ripresa del paese, perché la ripresa dell’impresa corrisponde alla ripresa di tutti.