Si chiamava Matteo, aveva 16 anni e frequentava la seconda ragioneria a Torino. Punto
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Ho dovuto superare il disgusto, lasciare che il clamore idiota si placasse, prima di riuscire a dire qualcosa senza troppa rabbia e con un po’ di lucidità. È necessario dire qualcosa di fronte a un’operazione manipolatoria che diventa inaccettabile perché fatta nei confronti di un minore. Un minore morto che non può più dire niente. Un minore che si è ucciso.
Si chiamava Matteo, aveva 16 anni e frequentava la seconda ragioneria a Torino. Punto. Questo è tutto quello che sappiamo. Il suo gesto disperato è un grido silenzioso, una manifestazione estrema di sofferenza, ma che non ci dice affatto il contenuto della sofferenza. Si possono fare supposizioni, chi lo ha conosciuto personalmente può persino avere dei sensi di colpa, si possono fare ispezioni nell’ambito scolastico e famigliare. Ma non si può certificare niente, incolpare qualcuno, sancire dei rapporti precisi di causa ed effetto. Questo è il minimo approccio onesto che si può avere nei confronti di qualsiasi dolore, a maggior ragione nei confronti di un suicidio, e ancora di più, diamine, nei confronti di un adolescente.
Chi minimamente ha a che fare in maniera seria con gli adolescenti, e non semplicemente scribacchia opinioni sui giornali, o chi semplicemente ricorda un poco la propria adolescenza, sa che non c’è nessuna età più estrema, faticosa, confusa, colma di sentimenti paure domande ricerche deflagrazioni. Sa che la scuola, e il gruppo dei pari, sono una fucina di conflitti, di disagi, di violenze, di affetti, di scoperte. Sa che la famiglia è una tana d’amore ma anche un covo di malessere, incomprensione, opposizioni, assenze. E allora è veramente scorretto, semplificatorio, oltre che ignobile, etichettare questa morte come un martirio omosessuale.
Certo, la sessualità di Matteo poteva essere in una fase sensibile, e i suoi atteggiamenti essere derisi. Ma in quell’età la sessualità può solo essere dirompente e confusa, non certo chiara e gestibile, indipendentemente dal genere delle pulsioni. Per cui tacciare Matteo come un omosessuale ben definito, e come tale martire della violenza nei confronti degli omosessuali, è un passaggio logico forzato. Le prime notizie sulla vicenda di Matteo mettevano in risalto vari aspetti della sua personalità, si insistette parecchio sul suo ottimo andamento scolastico come causa di emarginazione e di derisione; si accennò ai genitori separati; si disse che lo chiamavano Johnatan perché assomigliava al protagonista del Grande Fratello; insomma si cercò di fare un quadro che descrivesse il suo disagio. Nel giro di 24 ore si restrinse il cerchio intorno a un unico aspetto per esasperare le cause sociali e politiche implicate. Titoli di giornali, direttori di quotidiani, professori universitari hanno definito la morte-gay, hanno sproloquiato contro le supposte campagne anti omosessuali della Chiesa che avrebbero contagiato l’atteggiamento dei ragazzi nei confronti del loro compagno. Hanno in sostanza martirizzato un ragazzo per portare avanti la propria battaglia culturale. Non metto in discussione la legittimità della battaglia, ma gli strumenti che si scelgono.
La sofferenza è complessa e la scuola purtroppo non è un luogo dove la si accoglie, questo bisogna chiedersi, è un luogo impreparato a sostenere il disagio, si tende a intervenire solo quando si manifesta in modo disturbante. Oppure bisogna chiedersi quanto la famiglia di Matteo fosse sostenuta da una comunità sociale che desse sostegno anche solo umanitario.
E poi le insensate accuse alla Chiesa. Credo che non esista alcuna campagna violenta e denigratoria nei confronti degli omosessuali (lo dico da donna di sinistra non credente, tanto per mettere le cose in chiaro), piuttosto esiste un pensiero diverso sul perché dell’omosessualità e le scelte sociali che ne derivano. Ma anche ipotizzando per un momento che possa essere così, mi chiedo quanto dei sedicenni possano davvero esserne influenzati. Voglio dire, ipotizzando che nella seconda ragioneria dell’Istituto torinese ci sia una rappresentanza di giovani cattolici (e a quell’età i ferventi credenti non riempiono le classi!), non riuscirebbero ad influenzare con un pensiero tutto il gruppo.
A quell’età al massimo frequentano l’oratorio, dove si gioca a calcio e a pallacanestro. A quell’età se ne fregano della politica televisiva. A quell’età piangono e ridono continuamente, si sentono forti e debolissimi, vivono il gruppo come uno specchio, si sentono soli e spesso non riescono a dare un nome a quello che sentono. A quell’età si soffre delle etichette perché non se ne sente addosso nessuna, è un momento libero da etichette dentro un mondo che vive di quelle, e ci si dimena tanto per togliersele di dosso. Ci si dimena così tanto che si sente il vuoto e nessuno che prende in braccio se si cade. Come cadere dal quarto piano e morire.
Con coscienza sappiamo che quella che si è scatenata è stata una razionale operazione di propaganda, evidente nei modi in cui si è prodotta e costruita negli obiettivi. Questo non c’entra niente con Matteo.