Una famiglia da mulino terzomondista
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Dal mangiare al vestire, una vita all’insegna del consumo critico. Così, il quotidiano di Rifondazione Comunista, Liberazione, spiega come orientarsi per costruire un altro mondo possibile. L’esempio tratteggiato è quella di una famiglia classica: padre, madre e tre pargoletti. La rappresentazione messa in atto non ha nulla da invidiare alla tanto contestata famiglia del “Mulino Bianco” con la sola eccezione che in questo caso siamo in presenza del “Mulino terzomondista”. La faticaccia inizia subito al mattino. Abolita la napoletana “tazzurella e caffè” i due genitori si bevono una tazza di caffè Etiopia, per i bimbi invece, che chiedono insistentemente il capitalistico Nesquik, la mamma tira fuori l’Equik, un cioccolato della Repubblica Domenicana mischiato a zucchero dell’Ecuador. Come in un romanzo che neppure il Che Guevara si sarebbe potuto immaginare, i bambini vengono lasciati in una scuola dove come merenda gli daranno la cioccolata al latte di Altromercato e a pranzo le banane del Messico. Magliette E-cotton con scritta Afrecaa e pantaloni Kuyichi che però purtroppo si trovano soltanto in cinque “boutique” a Roma. Per cena, cous-cous con un paio di salse africane. Messi al letto i figli, la coppia finalmente si può riposare su un divano ricoperto da un copriletto equo dell’india, sorseggiando birra prodotta in Belgio che usa però ingredienti del commercio equo solidale, versata ovviamente in bellissimi bicchieri di vetro riciclato prodotti da una cooperativa del Guatemala. Poi, incenso prodotto in Vietnam e oli profumati indiani. La famiglia sia chiaro, paga tutto con il bancomat di una Banca Etica. Questo è il destino dei combattenti per il nuovo comunismo! Qualcosa però non torna. I proletari in circolazione, infatti, frequentano i popolari supermercati, gli economici discount, i poco terzomondisti mercati rionali. Insomma, operai, impiegati e ceto medio cercano la concomitanza qualità-prezzo. La descrizione che fa Liberazione sembra piuttosto il vezzo “perverso” e “conformista” dei borghesi radical-chic che non sanno più che moda seguire. E poi ci si domanda davvero, ma perché per essere comunisti bisogna per forza soffrire? Perché togliersi il piacere di un caffè Lavazza, di una pasta Voiello, di una sana tagliata di manzo e di un pecorino sardo? Diceva Viginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”, non ci può essere un buon amore, una buona amicizia e buona discussione se non c’è un buon pasto. Non ci può essere un buon comunista, aggiungo io, se non si è più in grado di distinguere impegno politico con realtà quotidiana, se si vogliono cancellare radici ed identità a vantaggio di utopiche suggestioni bocciate anche dal socialismo caraibico. Dimenticato Marx, trasfigurato il concetto di partigiano resistente, ora si vorrebbe addirittura educare il palato del popolo progressista. Cari compagni la partita è persa, i comunisti bevono CocaCola. Amano le bollicine.