Dalle viscere della produzione
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Simone Weil, (un’intellettuale della ricca borghesia ebraica) per scrivere “La condizione operaia” lavorò, nei primi del ’900, per ben due anni all’interno di una fabbrica metalmeccanica. Ambiente insalubre, sfruttamento esasperato e soprusi di “classe” segnano il racconto del capitalismo nascente. Anche il sottoscritto lavora in uno stabilimento di produzione. Chiarisco subito però che non si tratta di una “missione” a fini giornalistici. Comunque sia, è indiscutibilmente vero che dal profondo delle viscere della produzione, la visione sul mondo e sulla società si fa particolare, stringente. Nelle aziende che vanno dai cinquanta ai cento dipendenti, si conoscono tutti ma in definitiva non si conosce nessuno. Si notano le assenze, si riesce a comprendere quando qualcuno ci “marcia” con la malattia, o quando un infortunio è un bell’espediente per una settimana di ferie in più. Spesso risuona nella testa il pensiero che “nel meccanismo qualcosa non funziona, che forse ci sarebbe tutto da rifare”. Medici che concedono malattie ogni quindici giorni a soggetti sani come pesci, controlli legali che sono rari come la neve nel deserto del Sahara. E’ un bel grattacapo per un comunista poco incline alle sirene filopadronali. Eppure, talvolta è quasi impossibile dar torto all’imprenditore che si lamenta per l’inaffidabilità di certi personaggi sempre in bilico tra la degenza e ricadute. “E’ tutto da rifare”, riecheggia il ritornello nella mente. E’ da rifare un sistema che non separa assistenza da previdenza. Le malattie fasulle vengono pagate da quell’istituto che si chiama Inps e che fa buchi da tutte le parti. I furbi che s’inventano influenze nel mese di Luglio, pesano come parassiti sull’intera collettività, su tutti gli altri operai che diligentemente non perdono un giorno di lavoro. E’ immorale tutto questo? Sicuramente è un bel concetto anticomunista, perpetrato dalla classe lavoratrice. A “giocare” sulle casse dell’Inps però non sono solo i proletari. Anche i “padroni” hanno imparato bene la lezione. La cassa integrazione, infatti, come la malattia, attinge dallo stesso fondo Inps. Non si può certo imputare questa anomalia alla classe imprenditrice ma il ricorso a questo “aiuto di Stato” è talvolta tanto spregiudicato quanto speculativo. Quando in un’azienda di cento dipendenti vengono messi in c.i.g. tre persone, o in una di cinquanta, due operai, sorge il dubbio che non si sia in presenza di una profonda crisi, bensì al cospetto del tentativo di risparmiare denaro sulle spalle dello Stato. Anzi sulle spalle della solita Inps, quindi della collettività. E’ immorale tutto ciò? Forse è semplicemente il gioco delle parti. Ognuno ha da coltivare un interesse particolare e il “bene comune” è solo un puro anelito dell’utopia. Risuona nella testa il pensiero che “nel meccanismo qualcosa non funziona, che forse ci sarebbe tutto da rifare”.