Ho perso le parole
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Adriano Sofri, su La Repubblica del 31 luglio 2006, scrive un editoriale, Correre il rischio del bene, sull’indulto appena approvato. Al di là dei consigli ai politici, e delle considerazioni sulla vita in carcere, sembra emergere in Sofri una nostalgia che riguarda, non solo il linguaggio, una mancanza contemporanea, un’afasia generale sui momenti forti della vita: una nostalgia per quelle “parole che corrispondano alla cosa”. E’ gia qualcosa. Gli mancherebbe poco per giungere alla cosa, all’Essere che rende possibile ogni verbo, che è corrispondenza piena al cuore dell’uomo.
Sofri scrive: “L’abbiamo provata tutti, nei nostri funerali laici, di non credenti, una sensazione imbarazzata di inadeguatezza, una nostalgia per i funerali religiosi. Ci mancano le parole, i gesti di cui sentiamo il bisogno. E’ vero per il lutto e il dolore, è vero per la gioia. Quale annuncio dev’essere più gioioso di quello per eccellenza giubilare, del perdono, della riconciliazione, della liberazione? (…) Si parla, legittimamente, d’altro: è un regalo ai corrotti, ai furbetti, un compromesso necessario (…) E il perdono, e la pacificazione e il ricominciamento che il perdono promette a chi lo riceve e a chi lo concede, a una comunità intera che si apre alla fiducia? (…) Non abbiamo parole, non il suono dello yobel, la tromba di corno che dava l’annuncio dell’anno di grazia. La terra avrebbe riposato, sarebbe tornata agli antichi proprietari, gli schiavi sarebbero stati liberati. I 61 mila detenuti italiani hanno aspettato la notizia appesi alle inferriate, attaccati alle radioline che trasmettevano in diretta dal Senato - come avrei voluto essere dentro, sabato sera. Dice Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunzi”. Chi avrebbe l’ingenuità e il coraggio di usare parole simili? (…) L’annuncio è arrivato, prosaicamente, da Radio Radicale. Dice il Vangelo di Luca: “Lo Spirito del Signore… mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia”. Nostalgia di belle parole, sante, solenni. Immagino l’obiezione: libera Chiesa in libero Stato. Lo Stato non conosce giubilei e lieti annunzi, liturgie dell’Avvento e del Natale, lo Stato si occupa della legalità e della sicurezza… Be’, non solo. L’amnistia, l’indulto, stanno scritti nella Costituzione, e proprio come riconoscimenti gratuiti dell’impegno al riscatto, al ricominciamento, e non come espedienti pratici, sgomberi di corpi inerti, evasione di pratiche polverose, occasioni di accordi politici. (…) E la sicurezza? A chi è allarmato per la liberazione anticipata dei “delinquenti”, e a chi soffia sull’allarme, sperando in cuor suo che fatti atroci gli diano al più presto ragione, bisogna dire che il rischio c’è. (…) Una comunità può scegliere di correre un rischio, misurando il bene che può in cambio fare e ricevere. E’ sbagliato farsi forti di un’esperienza personale, negando a chi non l’abbia vissuta una piena voce in capitolo. (…) Non occorre aver visto tutto questo per sentire una misericordia: ma chi l’ha visto cerca altrove, nel profeta Isaia, nell’evangelista Luca, le parole che corrispondano alla cosa.