Don Giussani e don Barsotti non a caso amici
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Un anno fa la morte di don Luigi Giussani, pochi giorni orsono quella di don Divo Barsotti. Due uomini diversi e due amici. Due grandi padri cristiani. Che hanno segnato e segnano il presente e il futuro della Chiesa. Mi piacerebbe che su questo fatto riflettessero soprattutto quelli che la fede non ce l’hanno. O pensano di non averla. O non sanno più cos’è… Perché magari vorrebbero andarci, a messa. Però non si sentono a posto. O magari a messa ci vanno, ma senza la fede dei loro nonni e perché diversamente - senza cioè talune consuetudini - non si sentirebbero più se stessi. Insomma quelli che se gli chiedi: a Dio ci credi? dicono un sì. Indeciso ma profondo. E che poi sulla Chiesa han le idee confuse. Per colpa di chi parla contro la Chiesa. E di chi non la ama da dentro. Per colpa di coloro che pensano di amare Dio non amando più l’uomo. E di coloro che non sopportano un Dio che invece di starsene lassù a farsi immaginare da noi, cammina nella storia con gli uomini.
Vorrei che guardassero queste paternità. Ho vissuto da vicino quella di don Giussani. E ho amici che han vissuto quella di don Divo. Noi sappiamo una cosa. Una specie di segreto. Una cosa che questo mondo dominato da intellettuali sacerdoti di scetticimo, da sondaggisti, da opinionisti non vuole capire. O che fa finta di non capire. Noi sappiamo che la fede non è una questione di idee, o di dirittura morale. Noi sappiamo quello che gli ideologi di ogni epoca non vogliono sentirsi dire del cristianesimo. Perché loro, i potenti e i sacerdoti intellettuali, pensano di sapere cosa è il cristianesimo. E lo avversano perché credono di aver capito cosa è: un’idea bizzarra, una strana morale. Lo hanno studiato, lo hanno analizzato. Pensano di averlo capito. Di poterlo incasellare. Con il loro metodo. Che però non è un metodo adeguato. Come uno che pensasse di capire se sono buone le tagliatelle facendole passare da provette e alambicchi. Invece di assaggiarle. O di uno che volesse comprendere se una donna è bella analizzandone la radiografia.
Vorrei che queste morti così piante, così dolcemente accompagnate da tanti uomini e donne e giovani fossero guardate da chi non sa più cosa è la fede. Che la luce delle lacrime di chi rimpiange questi padri fosse guardata da chi vorrebbe avere fede e non sa come fare, e magari non si fida di quel che conosce, di quel che gli dicono. Vorrei che la testimonianza della morte di questi padri facesse sorgere una domanda intorno al segreto che noi, che abbiamo seguito don Giussani e don Divo sappiamo. Il mondo pensa che la fede sia un aderire a strani costumi, e a strane idee. Come uno che si convince di un teorema matematico, o di un’idea politica. Invece è un avvenimento che introduce alla scoperta di un padre. La fede è questione di scoprire d’avere un padre, e di esser figlio. È una eredità. Che è di più d’esser figli per via del sangue. Più di una appartenenza automatica, d’esser per tradizione dentro a un certo popolo. Chi ha un padre sa che nel rapporto c’è in gioco molto di più che sentirsi a posto o avere le stesse idee. Un padre autentico non vuole un figlio “uguale” a lui, né lo pretende subito irreprensibile. Vuole un figlio che ami la vita. E un figlio desidera che il padre sia una indicazione forte, libera e positiva per il futuro. Un padre, guardando il quale venga voglia di camminare, di andare più lontano, di rischiare. E che fondi la speranza, dando motivi per sostenere le prove. La fede è una eredità di vita. Non è un merito. Non è un lascito automatico. Occorre tutto lo splendore e il dramma di un rapporto tra padre e figlio. Occorre il vasto, meraviglioso spazio del rapporto di un uomo che si fa padre e di uno che si riconosce figlio. Occorre quella fragranza. La fede, amici che pensate di non averla, è la fortuna di trovare un padre. E la responsabilità avventurosa di diventarlo.