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Schiavitù RU 486

Autore:
Cavallari, Fabio
Fonte:
Tempi, 29 settembre 2005
Le fans dell’aborto? La togliattina Adriana Seroni le dichiarerebbe nemica dell'emancipazione femminile. Il Papa Ratzinger? Enrico Berlinguer ne parlerebbe come di un paladino delle donne. La provocazione (filologicamente fondata) di un comunista serio.

“La scienza ha compiuto notevoli passi creando condizioni impensabili rispetto al passato per una generazione libera e responsabile, i cui protagonisti restano tuttavia la donna e l’uomo e la loro capacità di armonizzare ragione e natura”. Stiamo parlando del rapporto tra i sessi e della responsabilizzazione dell’uno nei confronti dell’altro sui temi della procreazione. “Altra cosa è l’aborto, in cui non ci riesce davvero di scorgere alcuna affermazione della libertà della donna, quest’ultima, può certo, con l’aborto interrompere in modo traumatico un processo naturale; ma per farlo deve colpire se stessa, e tutto ciò che di umano, oltre che naturale e istintuale, è per lei l’inizio della sua maternità”. Repubblica bollerebbe queste parole come il risultato di quel femminismo che si è oggi convertito al verbo del cardinal Ruini. Eppure qualcosa potrebbe non tornare in questo tentativo di etichettare qualsiasi pensiero critico nel turbinio della “deriva clericale”. Le parole riportare, infatti, non appartengono alle atee devote, non sono il preambolo dell’ultimo libro di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia (“Contro il Cristianesimo”), bensì le riflessioni contenute in “La questione femminile in Italia – 1970-1977” scritto in quegl’anni da Adriana Seroni, membro del PCI e femminista che si adoperò, non poco, per introdurre l’attuale legge sull’interruzione di gravidanza. Quella battaglia a suo avviso doveva contribuire a “combattere la clandestinità dell’aborto e al tempo stesso non favorirne l’estensione come mezzo di controllo delle nascite”, così intesa proseguiva la Seroni “non è crescita di civiltà ma piaga sociale che in quanto tale non va estesa ma ridotta”. Cosa è successo in questi anni all’interno del movimento femminista si chiedeva provocatoriamente una giornalista (Simonetta Fiori) di Repubblica, (giovedì 15 settembre) se frange, anorchè minoritarie, sono oggi più vicine alle istanze espressa dalla Chiesa che non ai vecchi slogan della rivoluzione sessuale?

Il nuovo femminismo
Forse la spiegazione è semplice. A determinare la decodificazione di questa evoluzione concettuale potrebbe tornare utile una parola molto illuminista: la ragione. E’ ragionevole forse, in virtù della parificazione giuridica, negare la differenza sessuale tra uomo e donna? E’ ragionevole utilizzare un termine come genere che, in onore all’autodeterminazione, ha portato a cancellare le differenze corporee per esaltare strettamente quelle culturali? Francamente, liberarsi dai condizionamenti biologici per elogiare il tentativo di modellarsi a proprio piacimento, appare una mostruosità scienteista più che un tentativo di emancipazione. Nella foga di sbarazzarsi di tutti i vincoli “patriarcali” il cosiddetto femminismo progressista ha lasciato mano libera a mercato e modernità, finendo per semplificare e banalizzare la filosofia della differenza sessuale. Cambiare pannolini, pulire fornelli e vetri, nell’immaginario collettivo della “parità” non è più considerato un risultato della mutua collaborazione ma una vittoria femminista sull’uomo. L’impeto di liberarsi dalla costrizione del potere ha condotto la donna a definirsi quale soggetto antagonista dell’uomo, ricercando il potere come e quanto l’uomo. La “critica” come movimento di riflessione aperta si è conformata nel suo esatto contrario, in appiattimento e assoggettamento al potere costituito del capitale. Troviamo così teorizzazioni come quella della giurista franco-argentina Marcela Iacub che finisce per abbracciare la tecnoscienza più spregiudicata in onore del suo femminismo. La definitiva eguaglianza ci spiega la scrittrice avviene attraverso “la creazione di un utero artificiale in grado di separare del tutto l’identità femminile dalla procreazione”. Nel suo pamphlet “Qu’avez-vous fait de la libération sexuelle?” (Cosa avete fatto della liberazione sessuale? edito da Flammarion), la medesima ci spiega che “Occorre desacralizzare il sesso, renderlo un’attività normale, una semplice fonte di piacere come la gastronomia, l’arte o la musica. In campo sessuale le donne dovrebbero accedere allo stesso grado di libertà degli uomini, appropriandosi di una sessualità più conquistatrice e disinibita, finalizzata solo al piacere e non alla riproduzione. Una sessualità incentrata sul desiderio e libera da ogni responsabilità”.

Imparare dal pensiero cattolico
Al cospetto di questa deriva, che ha poco a che vedere con il protagonismo femminile ma che rischia di divenire “sentire comune” soprattutto nelle nuove generazioni, il pensiero cattolico ha fornito e fornisce ben più interessanti momenti di riflessione. Non appaia così strano allora che alcune femministe (non conformate) si siano trovate più in sintonia con il cardinal Ruini che non con la vulgata progressista della fecondazione a tutti i costi. Bisognerebbe avere l’accortezza di rigettare le facili schematizzazioni che i media ci offrono ed aprire le orecchie e le menti a parole e concetti che non s’ispirano altro che alla “ragione”. Un fulgido esempio di tutto questo è rappresentato da uno dei più alti e significativi documenti sulla questione femminile di questi ultimi anni, la “Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo” dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. Un documento progressista, dove la differenza tra i sessi viene rivendicata nella sua accezione più significativa, conferendo alla medesima fenomeno di sviluppo e non certo di segregazione. L’oscurantismo che viene addebitato alla Chiesa è spesso puro gargarismo, le parole che seguono, tratte dal quel testo, sono a nostro avviso, un chiara esemplificazione di questo laico elogio della ragione. “Ogni essere umano, uomo e donna, è destinato ad essere «per l’altro». In tale prospettiva ciò che si chiama «femminilità» è più di un semplice attributo del sesso femminile. La parola designa, infatti, la capacità fondamentalmente umana di vivere per l’altro e grazie all’altro. Pertanto la promozione della donna all’interno della società deve essere compresa e voluta come una umanizzazione realizzata attraverso quei valori riscoperti grazie alle donne. Ogni prospettiva che intende proporsi come una lotta dei sessi è solamente un’illusione ed un pericolo: finirebbe in situazioni di segregazione e di competizione tra uomini e donne e promuoverebbe un solipsismo che si alimenta ad una falsa concezione della libertà”.

La piaga dell’aborto
Durante la campagna referendaria sulla fecondazione assistita, molte sono state le discussioni affrontate con amici e compagni. Non sempre le medesime sono state vissute con serenità e pacatezza. L’invito che svolsi nei confronti dell’astensione provocò più di una risentita contestazione. Tra le tante mi colpì quella di un’amica cattolica (quattro sì per la libertà) che, dopo avermi rimproverato per la mia “deriva oscurantista”, mi chiese spazientita: “Ma non sarai anche diventato antiabortista?”. L’analfabetismo contenuto in questa domanda, è tanto drammatico quanto preoccupante. Il diritto a non abortire clandestinamente, così come recita la legge, è ben differente dalla pretesa di avere il diritto di abortire. Non è solo una mera questione lessicale ma una vera e propria devianza culturale. Dovremmo essere tutti antiabortisti, in linea di principio, teorico e pratico, così si espresse anche Enrico Berlinguer che, vinta la battaglia referendaria, disse: “Ora che abbiamo tolto l’aborto dalla clandestinità ci dobbiamo impegnare affinché le donne non si ritrovino nelle condizioni di abortire”. A quell’amica risposi che non serviva essere cattolici per rigettare la bandiera dell’aborto come vessillo ideologico. Mi accorgo ora che tutto risiede in un principio educativo. In tanti ne sono sprovvisti. Quest’assenza accomuna pseudo laici e pseudo credenti.

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