27 ottobre 2004: Venezuela, i sogni spezzati degli italiani
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Cari amici,
Il giornalista, Gian Antonio Stella, inviato del Corriere della Sera, si è recato, giovedì scorso, al pranzo quindicinale che la Missione Cattolica Pompei offre agli indigenti, tra cui molti italiani e, quasi tutti, assistiti dalla FAIV.
Saluti.
Leonella
Caracas: Arrivarono col mito della "Merica". E all'inizio c'era chi si faceva la villa. "Ora molti vivono con la mensa dei poveri. Altri non ci vanno per vergogna"
Maria Bikel non avrebbe mai immaginato, la mattina che sotto un sole sfolgorante sbarcò nella Merica, che mezzo secolo dopo si sarebbe fatta carico di quarantacinque chilometri all'andata e quarantacinque al ritorno, solo per mangiare un piatto di penne al sugo alla mensa dei poveri. E come lei non lo immaginavano Arturo e Gaspare e Peppino e tutti gli altri italiani arrivati ai moli di La Guaira giovani, allegri e gonfi di sogni e oggi accasciati, muti, intorno ai poveri tavoli della Nuestra Señora de Pompei.
Non era questo il Venezuela sul quale avevano fantasticato, carezzati dalle brezze marine, nei magici anni Cinquanta e Sessanta in cui avevano solcato l'oceano. Erano partiti avendo nelle narici, intenso da impazzire, l'odore dei sacchetti di caffè che qualche compaesano emigrato aveva portato in un baule sbucando dall'ultima curva nelle contrade della Calabria o dell'Abruzzo al volante di una luccicante macchina nuova, prova provata della fortuna accumulata.
Il Corriere della Sera scriveva allora che il Venezuela era "una macchina lanciata a cento all'ora". I pozzi pompavano petrolio a più non posso facendo del Paese il primo esportatore al mondo e i nostri operai di Maracaibo si facevano fotografare con gli occhi che sprizzavano felicità su facce nere nere di catrame. Il Pil schizzava all'insù di sette punti e mezzo l'anno. Il bilancio statale, mai visto in America Latina, si chiudeva ogni anno in pareggio nonostante le spese folli di un Paese costretto a importare quasi tutto. Le tasse incidevano solo per il 7 per cento. "E una famiglia dove tra marito e moglie entravano tremila bolivares al mese", racconta Francesca Granchelli, una dirigente d'impresa in pensione che si danna l'anima per strappare un po' di italiani alle umiliazioni della miseria più bruta, "si faceva la villa e mandava pure i figli all'università di Roma, Firenze o Torino".
Con tremila bolivares adesso, spiega amaro Giuseppe De Luca, non puoi neanche venire e tornare sui bus sgangherati che dai barrios della sterminata periferia caracheña portano fino alla parrocchia italiana: "Fortuna che so' invalido e ho diritto a viaggiare gratis, sennò non potrei manco veni' una volta la settimana a mangiarmi una pastasciutta". Ha 75 anni, è qui da quando ne aveva 25, indossa una canottiera che ha visto giorni migliori, vive con la figlia e il genero in una sola lurida stanza di tre metri per tre nel barrio di Boleita, verso Est.
Dove vivono molti altri italiani che non ce l'hanno fatta. Ogni quattro mesi, racconta, il nostro consolato gli fa la carità di 200 mila bolivares: "Tanti hanno fatto i soldi, io no. Mai. Si vede che non ero nato per far fortuna. Soffro di epilessia. Facevo il muratore e quando mi pigliava un attacco cadevo giù. Dopo un po' non mi ha più voluto nessuno".
Salvatore Mazzone sì, un giorno fortunato l'ha avuto: quello in cui il municipio del paese etneo dal quale era partito, Linguaglossa, gli ha mandato cinquecento euro. Una piccola fortuna. Muratore per tutta la vita, è lui pure tra i 2.500 disperati assistiti dallo Stato italiano per mezzo del consolato: "Con 200 mila bolivares ogni quattro mesi, però, mica ci mangiamo. Viviamo a Charallave, in una casa meschinella...". Cioè? "Una casetta come quelle di tutti i barrios, tirate su coi forati". Stanze? "Tre. Piccole". Col bagno? "Manco l'acqua teniamo". Quante persone? "Ci viviamo in nove". Affitto? "Duecentottanta mila bolivares al mese". E come fa? "Eh, come faccio...".
Padre Zelindo Belen, un prete secco che viene da una famiglia di feltrini finita un mucchio di anni fa a Erexim, nel Rio Grande do Sul, dove è cresciuto parlando "el taliàn", dice che sono tanti i nostri emigrati alla deriva che ogni giovedì si presentano lì, all'appuntamento settimanale, nella sala sotterranea della parrocchia di Nuestra Señora de Pompei. Una chiesa così cara agli italiani da custodire le copie delle statue processionali delle terre lasciate: San Nicola, San Calogero, San Filippo d'Agira... "Sarebbero anzi molti di più, quelli che vengono a mangiare, se tanti non preferissero rinunciare anche a quel piatto di pasta con un po' di carne che siamo faticosamente in grado di offrire loro, piuttosto che provare la vergogna di venirsi a sedere qui. Ammettendo il loro fallimento".
Facile andare alla deriva, nella Caracas ricca e miserabile, europea e terzomondista, elegante ed omicida di oggi. Spiega Marisella Mariano, una florida signora bionda che si occupa dei bambini dell'asilo della Madonna di Pompei, che ospita ragazzi fino alle superiori, che come maestra guadagna coi buoni pasto 700 mila bolivares al mese. Una paga discreta, se un paio di pantaloni non ne costasse almeno 60 mila, un chilo di bistecche 9.500, un paio di scarpe dai 70 mila, uno spray per l'asma 20 mila...
Per non dire degli affitti che per un'ottantina di metri quadri partono dai 600 mila in su. Prezzi pesanti per tutti. Impossibili per i pensionati che portano a casa, quando non vengono rapinati all'uscita, circa 300 mila bolivares al mese, pari al cambio nero a 115 o 120 dollari.
"Conosco un professore universitario italiano (dico: universitario) che non ha trovato i soldi per comprare un grembiule nuovo a suo figlio - sospira don Zelindo -. È dura. Durissima". Paolo Canciani, un friulano grande e grosso che partì da Gemona e dà una mano in parrocchia, racconta che aveva una piccola impresa edile: "Andava bene. Ci sono stati anni fortunati. Ma oggi... Ero arrivato ad avere quindici operai. Via uno, via l'altro, per un po' ho tentato di resistere. Adesso ho chiuso. Meno male che negli anni buoni mi ero fatto la casa, sennò...". Maria Cimino, un'abruzzese sulla sessantina che aiuta in cucina e svuota chili e chili di sugo in giganteschi pentoloni di penne, ce l'ha col presidente sul quale circolano, tra mille leggende, quella che abbia speso una enormità per un jet presidenziale: "Scriva che qui non c'è un solo italiano che viaggia con l'aereo di Chávez! Nessuno!".
Giuseppe Scordo, un calabrese arrivato nel '57, racconta di aver fatto la barba a Sanremo "perfino a Re Faruk e a Luciano Tajoli" e maledice il giorno in cui decise di partire e rimpiange quello in cui non comprò una sua barberia e manda moccoli a tutto il mondo che non capisce la sua tragedia. Giovanna Casamirra, che venne da Palermo nel '52 con la nave "Morosini", deve operarsi alla cataratta perché a 75 anni non ci vede quasi più: "Mi hanno chiesto 500 mila bolivares. Dove li trovo, 500 mila bolivares se coi 300 mila che prendo come domestica non ci mangio? Ho chiesto aiuto al consolato, mi hanno detto: "Ma cosa vuole da noi! Lei ormai è venezuelana!" Solo il collirio me ne costa 18 mila...". Tommaso Callerame no, lui non ce l'ha più con nessuno. Nessun rancore, nessun rimpianto. Ormai è andata. Fine. Mezzo secolo dopo aver passato l'Atlantico, dorme "in una pensione de malamuerte" in uno dei quartieri più malfamati. E chiede la carità alla rotonda di Altamira.
Gian Antonio Stella (1-continua)
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