Ogni cosa è illuminata
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“.....vi ho aspettato tanto… ci siete… “: così dice la sorella di Augustine a Jonathan e alla coppia nonno-nipote, gestori dell’agenzia di viaggi “Tradizione” che da Odessa (Ucraina) conduce famiglie ebree a visitare i luoghi dove la propria gente ha vissuto e ha subito l’olocausto. E’ un lungo viaggio quello compiuto da Jonathan: dagli USA fino al villaggio ucraino di Tachimbrod, alla ricerca delle proprie radici, avendo come traccia solo una sbiadita fotografia e il desiderio di mantenere una promessa fatta ai suoi nonni. Viaggio affrontato con un giovane ucraino che parla un inglese sgrammaticato e con il nonno che cela una ferita del passato non guarita: strade anonime di campagna, immense distese di grano, campi sterminati di girasoli, locande fatiscenti fino ad una baracca ed ad una lapide sulle sponde di un fiume, dove finalmente “ogni cosa è illuminata dalla luce del passato...”, e lo svelamento conduce ad una pacificazione interiore tanto cercata con dei volti, non più residui di un museo dei ricordi, ma persone che hanno amato, sofferto, riso e pianto, prima di diventare vittime del più grande genocidio del XX secolo.
Il viaggio ha le dimensioni di un percorso di iniziazione in cui i tre protagonisti cambiano radicalmente se stessi, investiti dalla forza struggente della Memoria più grande di loro e con la quale devono fare i conti. Jonathan, che si definisce collezionista di oggetti di famiglia, vegetariano, timido e riservato, attraversa l’oceano per andare in una terra ignota per scoprire le proprie origini: incontrerà un mondo totalmente diverso da quello in cui è cresciuto, ma quando l’anziana donna gli dice di togliersi gli occhiali scoprirà che il suo volto non è diverso da quello delle 1024 persone trucidate dai nazisti nel villaggio ucraino: così, partito con la Stella di Davide al collo, comprenderà, dentro l’esperienza di una drammatica e sofferta introduzione alla realtà, che quella catenina è costitutiva della sua identità, è il segno di un’appartenenza ad un popolo. Non a caso Jonathan consegna la Stella di Davide al nuovo amico ucraino, che vedrà il nonno amato togliersi la vita in una vasca da bagno. Anche l’amico appartiene a questo popolo e farà seppellire il nonno vicino alla lapide di Tachimbrod e scriverà un libro, diventando più adulto rispetto agli stupidi sogni che aveva quando era partito da Odessa; il nonno è un anziano che aveva cercato di seppellire la sua identità per mezzo secolo, ma soprattutto è un ebreo che compie questa scelta drammatica, schiacciato dal complesso di colpa di essere sopravvissuto (lo stesso gesto suicida che lo scrittore Primo Levi fece, buttandosi dalla tromba delle scale nel suo appartamento di Torino nel 1987, quattro decenni dopo aver scritto “Se questo è un uomo” e “I sommersi e i salvati”). Jonathan torna a casa e depone sulla tomba del nonno l’anello della giovane sposa amata. Così la memoria s’innesta nel presente, continuando nella positività dei volti sorridenti dei due giovani e di quello pietosamente rasserenato dell’anziano bibliotecario del villaggio che lavora con un’agenzia di viaggio per cancellare l’orrore di ciò che era accaduto al suo popolo.
Ma la vera e autentica protagonista del film è la dolcezza della memoria capace di mitigare il dolore, senza cancellare o dimenticarne le ferite tramite un processo di rimozione sentimentalmente consolatoria (come se l’olocausto non fosse accaduto e non interpellasse cuore e coscienze ancora oggi). Questa dolcezza è tutta nel volto della sorella di Augustine, la quale afferma che la giovane sposa ha sepolto la fede nuziale in quanto attendeva che qualcuno del suo popolo, della sua famiglia venisse a prenderla; una sorella che ha raccolto nel villaggio tutto ciò che permettesse a questa gente, che era insediata in questo luogo da tre secoli, di ricordare le proprie origini e tutto non fosse spazzato via per sempre una mattina di marzo del 1942 dalla furia antisemita nazista. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer.