Umiltà e obbedienza
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«“Consacrali nella verità”: è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apostoli, (l’origine del sacerdozio della Chiesa). Il Signore chiede che Dio stesso li tragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli (il Padre) li sottragga a se stessi e li attragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli li sottragga a se stessi e li prenda in sua proprietà, affinché a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacerdotale per il mondo. “Consacrali nella verità”. Gesù aggiunge: “La tua parola è verità”. I discepoli vengono quindi tirati dentro nell’intimo di Dio mediante l’essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora come vanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? E’ vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e si fa? Non sono forse le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio?
Friedrich Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quella obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio? “Consacrali nella verità; la tua parola è verità”: questa parola dell’inserimento nel sacerdozio illumina la nostra vita di presbiteri e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio» [Benedetto XVI, Omelia per la Messa del Crisma, 9 aprile 2009].
Nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Signore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contempo in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a “quelli che crederanno in me mediante la loro parola”. Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli, come Dio con un volto umano, ha visto anche ciascuno di noi e l’umanità nel suo insieme e ha pregato per noi, ha pregato per me nel Noi grande della Sua Chiesa. Per i discepoli chiede al Padre: “Consacrali nella verità. la tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,17ss). Il Signore chiede la santificazione di ognuno di noi, la santificazione nella verità E ci manda per continuare la sua stessa missione. Ma c’è in questa preghiera un parola che attira la nostra attenzione, ci sembra, immediatamente, poco comprensibile. Gesù dice: “Per loro io consacro me stesso”. Che cosa significa? Gesù non è forse per sé “il santo di Dio”, come Pietro ha confessato nell’ora decisiva a Cafarnao? (Gv 6,69). Come può ora consacrare, cioè santificare se stesso?
Cosa vogliono dire le parole “Santo” e “consacrare/santificare”?
“Santo” – con questa parola si descrive innanzitutto la natura di Dio stesso, il suo modo d’essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel senso originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d’essere. Egli è la Luce purissima che illumina la storia, la Verità e il Bene senza macchia, è l’Amore. Consacrare qualcosa o qualcuno significa quindi dare la cosa o la persona in proprietà di Dio, toglierla dall’ambito di ciò che è nostro e immetterla nell’atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma come essere dono del Donatore divino sia totalmente di Dio. Consacrazione è conseguenza della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore divino come di tutto quello che ci circonda e un consegnare liberamente, per amore, se stessi, le cose, al Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo attraverso la via umana del volto di Gesù Cristo. La cosa o la persona nel proprio e altrui essere dono del Donatore divino non appartiene originariamente a noi nella sua verità, e neppure a se stessa, ma viene immersa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, alla sua origine, alla verità che libera, perché niente è fatto da se stesso e per se stesso, lo chiamiamo poi anche sacrificio: con questo rispetto tutto nella verità dell’essere dono cioè nella sua verità che rende liberi e quindi non lo considero più proprietà mia perché non lo è, ma proprietà di Lui.
Nell’Antico Testamento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua “santificazione” si identifica con l’Ordinazione sacerdotale, e in questo modo si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio: è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazione/consacrazione.
- E’ un uscire dai contesti della vita mondana di un mondo che, soprattutto oggi, si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo – un “essere messi da parte” per Dio.
- Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa essere posti a rappresentare gli altri, tutti gli esseri dono del Donatore divino e quindi nella verità che rende liberi. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni mondane e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, dal Donatore divino cui rimanda ogni essere dono, è disponibile per gli altri, per tutti.
Quando Gesù dice: “Io mi consacro”, Egli si fa insieme sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l’affermazione: “io mi consacro” con “Io mi sacrifico”. Comprendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice: “Io mi consacro per loro”? E’ questo l’atto sacerdotale, la verità in cui Gesù – l’Uomo Gesù, la via umana alla Verità e alla Vita, che è una cosa sola col Figlio di Dio, con la Ragione per cui il Padre tutto crea – si consacra al Padre per noi. E’ l’espressione del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro – mi sacrifico: questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell’intimo del cuore di Gesù Cristo, dovrebbe sempre di nuovo essere oggetto della nostra riflessione. In essa è racchiuso tutto il mistero della redenzione di una cultura e di una vita pubblica in cui il Donatore divino di ogni essere dono, cioè la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza, rimane escluso e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenire superfluo ed estraneo. Nella parola abissale mi consacro – mi sacrifico è contenuta l’origine del sacerdozio della Chiesa. “Consacrali nella verità”. Gesù aggiunge: “La tua parola è verità” che libera dalla schiavitù dell’ignoranza sul da dove veniamo e verso chi siamo destinati. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro sacerdotale che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora – si è chiesto Benedetto XVI –, come stanno le cose nella nostra vita sacerdotale, nel nostro ministero? Siamo veramente pervasi e annunciatori della Parola di Dio? E’ vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero nel suo continuo attualizzarsi nella tradizione del popolo di Dio attraverso la Scrittura e il magistero?Amiamo la parola di Dio? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà in vissuti fraterni di comunione ecclesiale, nell’Io grande della Chiesa, un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero, un pensare cristiano cioè ecclesiale? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo, in discontinuità con la tradizione del popolo di Dio, si modella con tutto ciò che si dice e che si fa erigendo la libertà individuale a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità non sacerdotale, non da consacrati, da sacrificati di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio e quindi dal pensare cristiano, ecclesiale?
Non ha forse Cristo detto di se stesso: “Io sono la verità” (Gv 14,6)? E non è forse Egli stesso, nella continuità o Tradizione del popolo di Dio attraverso la Scrittura e il Magistero, la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre singole parole dell’Antico e del Nuovo Testamento, tutto il pensare cristiano, ecclesiale?
Consacra i miei discepoli, quelli che succederanno a loro, nella verità – ciò vuol dire, dunque, nel più profondo: rendili una cosa sola, con me, Cristo. Lègali a me. Tirali dentro di me nell’Io grande del mio corpo che è la Chiesa. E di fatto: esiste in ultima analisi solo un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre. E il sacerdozio ministeriale e collettivo dei discepoli, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti a servizio del sacerdozio dei fedeli non è quindi altro che un nuovo modo di unificazione con Cristo, una nuova struttura sacramentale oltre che quella battesimale. Sostanzialmente questa partecipazione ci è stata donata ontologicamente cioè nel nostro essere e non semplicemente per il nostro operare, cioè per sempre nel Sacramento dell’Ordine. Certo la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate. Ma questa precisazione dottrinale nulla toglie alla necessaria, anzi indispensabile, tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale. Questo nuovo sigillo che investe non solo la funzione sacerdotale ma il nostro stesso essere può diventare per noi sacerdoti un giudizio di condanna, se la nostra vita non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento, di questa nuova struttura sacramentale, che specifica quella del battesimo e della cresima. L’unirsi sempre più all’unico sacerdote, Gesù Cristo, suppone la rinuncia a un mondo nel quale Dio non c’entra cioè il consacrarsi sempre più a Lui, il sacrificarsi. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. “Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me”, ha detto san Paolo a questo proposito (Gal 2,20). Nel sì dell’ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla “autorealizzazione”, all’erigere la nostra libertà individuale a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. “Ma – ha osservato Benedetto XVI –bisogna giorno per giorno adempiere questo grande “sì” nei molti piccoli “sì” e nelle piccole rinunce. Questo “sì” dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande “sì”, potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente dell’amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continuamente. “chi perde se stesso, si trova”. Se osiamo perdere noi stessi per il Signore, sperimentiamo quanto sia vera la sua parola”.
Essere immersi nella Verità, in Cristo – di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e impariamo a conoscerLo sempre più: il suo modo di essere, di pensare, di agire
Pregare è un camminare, nel Noi grande della Chiesa, in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie – è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma perché questo non diventi un autocontemplarsi, una liturgia dove la comunità decide di celebrare se stessa, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, nella quale il Signore ci offre se stesso per essere ieri, oggi e sempre assimilati a Lui. Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare, anzi il culmine e la fonte di ogni preghiera. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto se oltre alla fedeltà all’Ordinamento generale del Messale Romano con il nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole e nei riti, che la chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi, sapendo e pensando attraverso il Catechismo e il suo Compendio sulla fede celebrata, siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole e sapendo e pensando vedono chi parla e chi ricevono con fede diventando veramente “un corpo solo e un’anima sola” con Cristo.
Immersi nella verità e nella santità di Dio significa accettare il carattere esigente della verità e dell’amore; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda è presente in noi
Quando parliamo dell’essere consacrati nella verità, non dobbiamo neppure dimenticare che in Gesù Cristo, incontrato in vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata, verità e amore sono una cosa sola. L’amore vero non è a buon mercato, può essere anche molto esigente. Oppone resistenza al male, per portare all’uomo il vero bene. Se diventiamo una cosa sola con Cristo, impariamo a riconoscerLo sempre presente proprio nei sofferenti, nei peccatori, nei poveri, nei piccoli, nei fratelli e le sorelle di Lui e in essi siamo consapevoli di incontrare Lui stesso nella via umana dell’incarnazione che continua attraverso l’Io grande del Suo corpo, della Sua Chiesa.
“Consacrali nella verità” – è questa la prima parte di quella parola di Gesù. Ma poi Egli aggiunge: “Io consacro, (sacrifico) me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” – cioè veramente (Gv 17,19). Questa seconda parte ha un suo specifico significato. Esistono nelle religioni del mondo molteplici modi rituali di “santificazione”, di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplicemente una cosa formale. Cristo chiede per i suoi discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale (la mediazione di parola e rito sono necessari ma non lo scopo), ma consapevolmente e liberamente sia un vero Sacramento che ci tocca nelle profondità del nostro essere, del nostro io. Ma Gesù, in quell’ultima Cena, ha anche pregato affinché questa trasformazione nell’Eucaristia giorno per giorno in noi si traduca in vita, in vissuto fraterno di comunione; affinché nel nostro quotidiano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi della Luce di Dio che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro.
“Alla vigilia della mia Ordinazione sacerdotale, 58 anni fa – ha confidato Benedetto XVI –, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo ricevere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino di sacerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano: “Consacrali nella verità; la tua parola è verità”. Allora seppi: il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Precisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo consacrati mediante riti, anche se c’è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci immerge, è Lui stesso – la Verità in persona (senza saperlo, senza pensarlo e quindi con gli occhi della fede vederLo il rito, pur mediazione necessaria, non opera a nostra insaputa e accoglienza di fede). Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, “affinché venga il suo Regno”. Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vogliamo pregare il Signore di farci diventare uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio. PreghiamoLo di attirarci sempre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen”.