Padroni della fede?
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«Cari amici (diaconi tra poco ordinati sacerdoti), questa è la vostra missione: recare il Vangelo a tutti, perché tutti esperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della vostra missione, cari diaconi che tra poco diventerete sacerdoti. L’apostolo Paolo chiama i ministri del Vangelo “servitori della gioia”. Ai cristiani di Corinto, nella sua Seconda Lettera, egli scrive: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede: siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi” (2 Cor 1,24). Sono parole programmatiche per ogni sacerdote. Per essere collaboratori della gioia degli altri, in un mondo spesso triste e negativo, bisogna che il fuoco del Vangelo arda dentro di voi, che abiti in voi la gioia del Signore. Allora potrete essere messaggeri e moltiplicatori di questa gioia recandola a tutti, specialmente a quanti sono tristi e sfiduciati» [Benedetto XVI, Omelia dell’Ordinazione presbiterale, 27 aprile 2008].
Seminare nel mondo la gioia del Vangelo
Partendo dal capitolo VIII degli Atti degli Apostoli, che narra la missione del diacono Filippo a Samaria, Benedetto XVI nell’Omelia per le ordinazioni presbiterali, ha voluto sottolineare l’esperienza di gioia ogni volta che ci celebra l’Eucaristia, l’esultanza spirituale del tempo di Pasqua e soprattutto per la festa dell’Ordinazione di nuovi Sacerdoti. E ha voluto attirare l’attenzione sulla attualizzazione liturgica della testimonianza del testo biblico: “E vi fu grande gioia in quella città” (At 8,8). Si tratta di un’espressione che non comunica solo un’idea, un concetto teologico, ma riferisce l’accadere di un avvenimento circostanziato, qualcosa che ha cambiato la vita stessa delle persone: in un determinata città della Samaria, nel periodo che seguì la prima violenta persecuzione contro la Chiesa a Gerusalemme (At 8,1), venne ad accadere qualcosa che causò allora “grande gioia” e che celebrandone liturgicamente la memoria può far accadere qui e ora lo stesso avvenimento di gioia. Che cosa era successo? Narra l’Autore sacro che, per sfuggire alla persecuzione scoppiata a Gerusalemme contro coloro che si erano convertiti al cristianesimo, tutti i discepoli, tranne gli Apostoli, abbandonarono la Città santa e si dispersero all’intorno. Da questo evento doloroso scaturì, in maniera misteriosa e provvidenziale, un rinnovato impulso alla diffusione del Vangelo. Fra coloro che si erano dispersi c’era anche Filippo, uno dei sette diaconi della Comunità. Or avvenne che gli abitanti della località samaritana, di cui si parla in questo capitolo degli Atti degli Apostoli, accolsero unanimi l’annuncio di Filippo e, grazie alla loro entusiastica adesione al Vangelo, egli poté guarire molti ammalati e poterono constatare segni prodigiosi di liberazione. In quella città della Samaria, in mezzo a una popolazione tradizionalmente disprezzata e quasi scomunicata dai Giudei, risuonò l’annuncio del possibile incontro con la Persona di Gesù Cristo, che ogni cuore attende per vivere in Lui e di Lui, dando alla vita un nuovo orizzonte e con ciò l’unica direzione decisiva. Ecco perché dunque – sottolinea san Luca – in quella città “vi fu grande gioia”. L’avvenimento dell’incontro ecclesiale con Cristo rivela uno speciale valore di assoluto che non ha paragone con nessun’altra relazione umana. Gesù Cristo non è “soltanto un uomo”, crocifisso e risorto: racchiude un mistero più grande, anche nella sua umanità attuale di amici suoi che comunicano la sua amicizia. In Lui abita “corporalmente tutta la pienezza della divinità” (col 2,9). Solo in questo incontro con Lui può accadere il nostro “sì” a Dio che fa sgorgare la fonte della vera felicità: questo “sì” libera l’io da tutto ciò che lo rinchiude in se stesso, mantenendolo inquieto. Fa entrare la povertà della nostra vita nella ricchezza e nella forza del progetto di Dio, senza tuttavia ostacolare la nostra libertà e responsabilità. Apre il nostro cuore, come è il suo grande desiderio originario, alle dimensioni divine dell’amore e conforma la nostra vita alla vista stessa di Cristo, riempiendo di gioia. Questa è la missione di sacerdoti, la missione della Chiesa: recare il Vangelo a tutti, perché tutti sperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita fatta carne, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo, dono del Risorto? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della missione di sacerdoti.
Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece collaboratori della vostra gioia
Attraverso il gesto rituale dell’imposizione delle mani da parte del Vescovo con i suoi sacerdoti lo Spirito Santo, lo Spirito del Risorto scende conferendo la dignità presbiterale. E’ un segno inseparabile dalla preghiera, della quale costituisce un prolungamento silenzioso. Senza dire parole, il Vescovo consacrante e dopo di lui gli altri sacerdoti pongono le mani sul capo degli ordinandi, esprimendo così l’invocazione a Dio perché effonda il suo Spirito su di loro e li trasformi nel loro essere già cristiani per il battesimo e la cresima rendendoli per sempre partecipi del Sacerdozio di Cristo capo, guida, pastore dei suoi. Si tratta di pochi secondi, un tempo brevissimo, ma carico di straordinaria densità spirituale. E ogni sacerdote ritorna per tutta la vita a questo momento, a questo gesto che non ha nulla di magico, pur così ricco di mistero, di realtà divino umana, origine e fonte della nuova missione nella Chiesa. In quella preghiera silenziosa avviene l’incontro tra due libertà: la liberà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo. L’imposizione delle mani esprime plasticamente la specifica modalità di questo incontro: la Chiesa, impersonata dal Vescovo in piedi con le mani protese, prega lo Spirito Santo di consacrare il candidato; il già diacono, in ginocchio, riceve l’imposizione delle mani e si affida per sempre a tale mediazione. L’insieme e la fedeltà dei gesti rituali è importante, ma infinitamente più importante è il movimento spirituale, invisibile, che esso esprime e produce; movimento ben evocato dal sacro silenzio, che tutto avvolge all’interno e all’esterno. Qui accade quel misterioso “movimento” trinitario, che conduce lo Spirito Santo e il Figlio a dimorare nei discepoli. Qui è Gesù stesso a promettere che Risorto pregherà il Padre affinché mandi ai suoi lo Spirito, definito “un altro Paraclito” (Gv 14,16), termine greco che significa avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo dall’accusatore per antonomasia, che è satana. Nel momento in cui Cristo, compiuta la sua missione, ritorna al Padre (ascensione o terzo elemento con la crocifissione, morte – risurrezione, del mistero pasquale) questi invia lo Spirito, come Difensore e Consolatore, perché resti per sempre con i credenti abitando dentro di loro (è la grazia). Così, tra Dio Padre e i discepoli si instaura, grazie alla mediazione unica del Figlio e dello Spirito Santo, una relazione intima di reciprocità.”Io sono nel Padre e voi in me e io in voi”, dice Gesù (Gv 14,20). Tutto questo dipende però da una condizione che Cristo pone chiaramente all’inizio: “se mi amate” rispondendo al mio amore (Gv 14,15), e che ripete alla fine: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Senza l’amore per Gesù, che si attua nel tentare e ritentare di osservare i suoi comandamenti, la persona si esclude dal movimento trinitario inizia a ripiegarsi su se stessa, dissolvendo il proprio desiderio naturale di vedere Dio nel volto umano di Gesù, lasciandosi assimilare a Lui, perdendo la capacità di ricevere continuamente e comunicare Dio al desiderio di ogni cuore umano.
“Se mi amate”. Queste parole le ha pronunciate Gesù durante l’Ultima Cena nel momento in cui contestualmente istituiva l’Eucaristia e il Sacerdozio che la rende possibile. Pur rivolte immediatamente agli Apostoli, esse, in un certo senso, sono indirizzate a tutti i loro successori e ai sacerdoti, che sono i più stretti collaboratori dei successori degli Apostoli cioè dei Vescovi. Durante l’ordinazione risuonano come invito a vivere sempre più coerentemente da parte di chi Cristo con l’ordinazione rende partecipi del suo Sacerdoizo la vocazione ministeriale, pastorale nella Chiesa. Chi ne è consacrato e chi ne riceve il ministero accolgono con fede e amore il dono e lascia che si imprima nel cuore, che accompagni lungo il cammino dell’intera esistenza. Quanto è necessario non dimenticarlo, non smarrirlo per strada! Si tratta di rileggere spesso le parole di consacrazione, di pregarci su. Di rimanere fedeli e sicuri dell’amore di Cristo e quindi accorgersi con gioia sempre nuova di come questa sua divina Parola di risorto cammina, cresce nei presbiteri e in quanti ricevono il loro ministero con fede e amore.
Com’è importante per non esercitare il ministero da padroni sulla fede dei credenti, ma da collaboratori di chi è già saldo nella fede nel ministero, l’esortazione della Prima Lettera di Pietro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3,15). Adorare Cristo nel suo cuore da parte del sacerdote vuol dire coltivare una relazione personale d’amore con Lui attraverso la fraternità sacramentale con gli altri presbiteri, amore primo e più grande, unico e totalizzante, dentro il quale vivere, purificare, illuminare e santificare tutte le altre relazioni. La “speranza che è nei sacerdoti” è legata a questa “adorazione”, a questa risposta di amore all’amore di Cristo, che per lo Spirito Santo, abita in essi. “Speranza – ha concluso il Papa – che da oggi diventa in voi “speranza sacerdotale”, quella di Gesù Buon Pastore, che abita in voi e dà forma ai vostri desideri secondo il suo Cuore divino: speranza di vita e di perdono per le persone che saranno affidate alle vostre cure pastorali; speranza di santità e di fecondità apostolica per voi e per tutta la Chiesa; speranza di apertura alla fede e all’incontro con Dio per quanti vi accosteranno nella loro ricerca della verità; speranza di pace e di conforto per i sofferenti e i feriti dalla vita. Carissimi, ecco il mio augurio in questo giorno per voi tanto significativo: che la speranza radicata nella fede possa diventare sempre più vostra! E possiate voi esserne sempre testimoni e dispensatori saggi e generosi, dolci e forti, rispettosi e convinti. Vi accompagni in questa missione e vi protegga sempre la Vergine Maria, che vi esorto ad accogliere nuovamente, come fece l’apostolo Giovanni sotto la Croce, quale Madre e Stella della vostra vita e del vostro sacerdozio. Amen!”.