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Che cosa è l’università? Qual è il suo compito?

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it

«E’ una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione - Amore.
Per questo l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della loro identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. E’ necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theorìa, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre la correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.
Ma la verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è il bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa… Che cosa ha da fare e da dire il Papa all’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore della Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro» [Benedetto XVI, Allocuzione per “La Sapienza”, 17 gennaio 2008].

Da queste argomentazioni risulta che la formazione di Benedetto XVI è biblica, patristica e liturgica e alla base di esse agli affronta le problematiche attuali con un atteggiamento che denota certamente acute capacità critiche, ma con una grande volontà costruttiva, una grande apertura e anche simpatia. E proprio per annunciare la Verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo, che è l’unica ragione d’essere e dell’evangelizzare della Chiesa, mette in luce che al termine del secondo millennio il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata proprio sulla crisi della sua pretesa di verità.
Se la fede cristiana in Dio è in primo luogo opzione fin dagli inizi per il primato del logos, del senso della vita e non per il mito, fede nella realtà del senso creativo, che precede e sostiene il mondo, in quanto fede nell’essere persona di tale Logos creatore, di tale Ragione creativa, è allo stesso tempo capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità ma un ritenere che il pensiero originario, di cui il mondo, strutturato in maniera intelligente, rappresenta il pensato, non sia una coscienza anonima e neutrale, ma sia libertà, amore creativo, Persona cui ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza, la nostra libertà e il nostro amore, anzi l’intelligenza, la libertà, l’amore di ogni persona particolare. Su queste basi diventa di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità non riducibile all’empiricamente verificabile proprio della scienza, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro in Università la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme.
In concreto, ben prima della nascita di Cristo, la critica dei miti religiosi compiuta significativamente da Socrate e dalla filosofia greca - critica che può definirsi come l’illuminismo filosofico dell’antichità e l’origine dell’anima dell’università occidentale - ha trovato un corrispettivo nella critica agli dei falsi condotta dai profeti di Israele (in particolare il Deutero Isaia) in nome soprattutto di un puro e semplice monoteismo con accenni al Dio uno e trino, con il particolare, la persona, quel più piccolo capace di intendere e di amare che diventa il più grande. Poi c’è l’avvenimento storico dell’incontro tra la fede giudaica e la filosofia greca dell’Antico Testamento dei “Settanta”, fatto proprio dalla Chiesa, che è più di una semplice traduzione e rappresenta uno specifico importante passo di fede - ragione della storia della Rivelazione.
Pertanto l’affermazione “In principio era il Logos”, con cui inizia il prologo del Vangelo di Giovanni costituisce la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi nel Nuovo Testamento.
Nella stessa linea si è mossa la patristica, il cristianesimo primitivo che ha operato con coraggio la sua scelta e compiuto la sua purificazione, optando per il Dio dei filosofi, contro gli dei delle religioni. Paolo descrive la separazione fra logos e mito: “Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato… Essi dunque… pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria, né gli hanno reso grazie come a Dio, ma… hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Rm 1,19-23).
Le religioni pagane non battono la via del logos, ma si ostinano a restare attaccate al mito, pur riconosciuto privo di consistenza reale. Perciò il loro tramonto era inevitabile; era la logica conseguenza del distacco dalla verità, che conduceva a considerare la religione un puro orientamento e una mera impostazione di vita. Di fronte a questa situazione Tertulliano ha delineato la posizione cristiana, mai venuta meno nella tradizione cattolica con una frase grandiosa, audace e incisiva: “Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine”. E’ una delle affermazioni più importanti della teologia patristica e il Papa annota che i cristiani dei primi secoli “hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione - Amore”. Qui il Papa riunisce in singolarissima sintesi la lotta della chiesa primitiva e il compito perenne, anche attuale, che si pone alla fede cristiana se vuole rimanere se stessa. All’idolatrica venerazione della “tradizione” dell’urbe, che imponeva le sue abitudini come regola autosufficiente di condotta, si contrapponeva ora la pretesa esclusiva della verità. Il cristianesimo veniva così a porsi risolutamente dalla parte della verità, anche oggi unica autorità in una università veramente laica cioè libera da autorità politiche ed ecclesiastiche, abbandonando l’idea di una religione che si accontenta di essere una forma cerimoniale, alla quale in definitiva, lungo la strada dell’interpretazione, si può anche dare un qualunque senso.
E per cogliere tutto quello che il Papa ha sviluppato nell’intervento scritto per “La Sapienza” può essere utile rifarsi ha quanto propone in Introduzione al Cristianesimo, pp. 132 - 133: “Un ulteriore riferimento può chiarire quanto detto. L’antichità aveva finito per concretizzare il dilemma della sua religione, della sua dissociazione dalla verità conosciuta per via filosofica, nell’idea di tre teologie che c’erano: la teologia fisica, quella politica e quella mitica. Aveva giustificato la frattura tra lògos e mito richiamandosi alla sensibilità del popolo e all’utilità dello Stato, in quanto la teologia mitica rendeva possibile anche la teologia politica. In altri termini, aveva in pratica opposto verità e consuetudine, utilità a verità. I seguaci della filosofia neoplatonica erano andati un passo oltre, interpretando il mito ontologicamente, spiegando come teologia ‘simbolica’, e tentando così di utilizzarlo come strumento interpretativo per giungere alla verità. Ma tutto ciò che può esistere grazie all’interpretazione, in realtà ha cessato di esistere. Lo spirito umano si volge a buon diritto alla verità stessa e non a ciò che, ricorrendo ai funambolismi del metodo interpretativo, può ancora essere dichiarato conciliabile con la verità ma in sé non ha più verità.
Ambedue i processi rivestono un carattere di impellente attualità. In una situazione come la nostra, in cui la verità del messaggio cristiano sembra scomparire, nella lotta contro il cristianesimo si profilano oggi di nuovo proprio i due metodi con cui un giorno l’antico politeismo ha scatenato, ma non vinto, la sua battaglia mortale. Da un lato sta la ritirata dalla verità della ragione per rifugiarsi nell’ambito della pura devozione, della pura fede, della sola rivelazione; una ritirata che in realtà, voluta o non voluta, ammessa o meno, assomiglia fatalmente alla ritirata della religione antica di fronte al lògos, alla fuga dalla verità per rifugiarsi nella comoda consuetudine, dalla physis alla politica. Dall’altro sta un procedimento, che io chiamerei sbrigativamente cristianesimo interpretativo. In esso, mediante il metodo dell’interpretazione, si elimina lo scandalo del messaggio cristiano e, mentre se ne attenua in questo modo il carattere di scandalo, si trasforma al contempo anche la sua sostanza in frasi a cui si può rinunciare, in un giro di parole nient’affatto necessario per esprimere ciò che è semplice, che qui viene spiegato nel suo significato ricorrendo a complicati artifici interpretativi.
L’opzione cristiana originaria è, invece, completamente diversa. Come già abbiamo visto, la fede cristiana ha fatto la sua scelta: contro gli dei delle religioni per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della consuetudine per la verità dell’essere. A partire da questo, alla chiesa primitiva si rinfacciava che i suoi seguaci fossero degli atei. Questo rimprovero scaturiva dal fatto che, in pratica, la chiesa primitiva respingeva in blocco il mondo dell’antica religio, dichiarandolo totalmente inaccettabile e rifiutando tutto come vuota consuetudine convenzionale in contraddizione con la verità
Il Dio dei filosofi, che si lasciava al suo posto, appariva però agli antichi come religiosamente non significativo, bensì una mera realtà accademica, extra - religiosa. Ora, il lasciarlo al suo posto e il professare di credere unicamente ed esclusivamente in lui dava tutta l’impressione di una irreligiosità, sembrava un rinnegamento della religio, e quindi ateismo”. Ma il Dio di Gesù Cristo, l’“io sono” che Gesù applica a se stesso supera radicalmente ciò che i filosofi erano giunti ad argomentare di Lui. Non è una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi.
Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo, ogni uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita ad un autentica storia d’amore sponsale con Israel, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all’intera umanità ma la conduce all’estremo, al punto cioè di “rivolgersi contro se stesso”, nella croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, e di chiamare l’uomo, ogni uomo a quell’unione di amore con Lui che culmina nell’Eucaristia.
Il Dio della fede cristiana è dunque sì l’Essere Assoluto, tutto in Atto, il Dio della metafisica, ma è anche identicamente, il Dio della storia, il Dio che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi.
“Io direi - Benedetto XVI a “La Sapienza” - che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione” e “senza separazione”: “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino”.

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