Che fede diventi intelligenza e intelligenza diventi fede
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«Una cosa che, penso, causa a tutti noi una "preoccupazione" nel senso positivo del termine, è il fatto che la formazione teologica dei futuri sacerdoti e degli altri insegnanti ed annunciatori della fede debba essere buona; abbiamo quindi bisogno di buone Facoltà teologiche, di buoni seminari maggiori e di adeguati professori di teologia che comunichino non soltanto conoscenze, ma formino ad una fede intelligente, così che la fede diventi intelligenza ed intelligenza diventi fede...
L'altra cosa è la catechesi che, appunto, negli ultimi cinquant'anni circa, da un lato, ha fatto grandi progressi metodologici, dall'altro, però, si è persa molto nell'antropologia e nella ricerca di punti di riferimento, cosicché spesso non si raggiungono neanche più i contenuti della fede».
Il Papa, persuaso che una concezione erronea della rivelazione è necessariamente esposta a un’interpretazione ugualmente errata della sacra Scrittura, ha detto: “A questo riguardo ho un desiderio molto specifico. La nostra esegesi ha fatto grandi progressi; sappiamo davvero molto sullo sviluppo dei testi, sulla suddivisione delle fonti ecc., sappiamo quale significato può aver avuto la parola in quell’epoca… Ma vediamo anche sempre più che l’esegesi storico-critica, se rimane soltanto storico - critica, rimanda la parola nel passato, la rende una parola dei tempi di allora, una parola che, in fondo, non ci parla affatto; e vediamo che la parola si riduce in frammenti perché, appunto, essa si scioglie in tante fonti diverse. Il Concilio, la Dei Verbum, ci ha detto che il metodo storico-critico è una dimensione essenziale dell’esegesi, perché fa parte della natura della fede dal momento che essa è factum historicum. Non crediamo semplicemente a un’idea; il cristianesimo non è una filosofia, ma un avvenimento che Dio ha posto in questo mondo, è una storia che Egli in modo reale ha formato e forma come storia insieme con noi. Per questo, nella nostra lettura della Bibbia l’aspetto storico deve veramente essere presente nella sua serietà ed esigenza: dobbiamo effettivamente riconoscere l’evento e, appunto, questo “fare storia” da parte di Dio nel suo operare. Ma la Dei Verbum aggiunge che la Scrittura, che conseguentemente deve essere letta secondo i metodi storici, va letta anche come unità e deve essere letta nella comunità vivente della Chiesa.
Queste due dimensioni mancano in grandi settori dell’esegesi. L’unità della Scrittura non è un fatto puramente storico - critico, benché l’insieme, anche dal punto di vista storico, sia un processo interiore della Parola che, letta e compresa sempre in modo nuovo nel corso di successive relectures, continua a maturare. Ma questa unità è in definitiva, appunto, un fatto teologico: questi scritti sono un’unica Scrittura, comprensibili fino in fondo se letti nell’analogia fidei come unità in cui c’è un progresso verso Cristo e, inversamente, Cristo attira a sé tutta la storia; e se, d’altra parte, questo ha la sua vitalità nella fede della Chiesa. Con altre parole, mi sta molto a cuore che i teologi imparino a leggere e ad amare la Scrittura così come, secondo la Dei Verbum, il Concilio lo ha voluto: che vedano l’unità interiore della Scrittura - una cosa aiutata oggi dall’“esegesi canonica” (che senz’altro si trova ancora in un timido stadio iniziale) - e che poi di essa facciano una lettura spirituale, che non è una cosa esterna di carattere edificante, ma invece un immergersi interiormente nella presenza della Parola. Mi sembra un compito molto importante fare qualcosa in questo senso, contribuire affinché accanto, con e nell’esegesi storico - critica sia data veramente un’introduzione alla Scrittura viva come attuale Parola di Dio. Non so come realizzarlo concretamente, ma credo che, sia nell’ambito accademico, sia nel seminario, sia in un corso di introduzione, si possono trovare professori adeguati, affinché avvenga questo incontro attuale con la Scrittura nella fede della Chiesa - un incontro sulla base del quale diventa poi possibile l’annuncio”.
E’ certamente un discorso molto impegnativo quello di Benedetto XVI, quasi un preludio che prepara il Sinodo dell’ottobre 2008 La Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa.
La costituzione conciliare Dei Verbum insegna che la Scrittura è Parola di Dio e che, nella composizione dei libri sacri, lo Spirito santo ha ispirato gli autori umani a scrivere la verità che lo Spirito voleva insegnarci in ordine alla nostra salvezza. Conseguentemente occorre studiare il modo di composizione dei libri, l’intenzione degli autori e molti altri elementi letterari e storico - critici. I contributi dell’esegesi, a questo proposito, sono stati di grande arricchimento ma, al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che, in quanto Parola ispirata, la sacra Scrittura deve “essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta, per scoprire con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenendo debitamente conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede” (Dei Verbum n.12).
In alcune occasioni i testi biblici si studiano e si interpretano come se si trattasse di semplici testi dell’antichità. Si applicano, inoltre, metodi che escludono sistematicamente la possibilità della rivelazione, del miracolo e dell’intervento di Dio. Invece di integrare i contributi della storia, della filologia e di altri strumenti scientifici con la fede e la tradizione della Chiesa frequentemente si presenta come problematica proprio l’interpretazione ecclesiale e la si considera estranea, quando non opposta, all’“esegesi scientifica”. La tendenza a prescindere dall’ispirazione e dal canone della Sacra Scrittura, come se si trattasse di principi irrilevanti per l’autentica comprensione del testo sacro, continua a costituire una grave preoccupazione. La questione non si radica tanto nell’utilizzo delle risorse della filologia o di tutti i dati che la ricerca ci offre, quanto in quei presupposti filosofici e ideologici dei metodi che risultano incompatibili con la confessione di Cristo, centro delle Scritture. Tali metodi sono molto utili e necessari nel loro ambito di applicazione, ma non possono avere, per loro stessa natura, l’ultima parola nella comprensione di un testo biblico il cui elemento determinante è l’ispirazione. Sarebbe pressappoco come cercare di comprendere la persona e l’identità di Cristo prescindendo dalla sua natura divina, e per di più, presentare tale comprensione come una conclusione “scientifica”. La conseguenza di una esegesi erronea è che la Scrittura non è più “l’anima della teologia” (Dei Verbum 24), e non può rappresentare il fondamento né per la catechesi, né per la liturgia, né per la predicazione, né per la vita morale cristiana, né per la devozione dei fedeli.
“L’altra cosa - ha continuato il Papa - è la catechesi che, appunto, negli ultimi cinquant’anni circa, da un lato, ha fatto grandi regressi metodologici, dall’altro, però, si è persa molto nell’antropologia e nella ricerca dei punti di riferimento, cosicché spesso non si raggiungono neanche più i contenuti della fede. Posso capirlo: addirittura al tempo in cui ero viceparroco - quindi 56 anni fa - risultava già molto difficile annunciare nella scuola pluralistica, con molti genitori e bambini non credenti, la fede, perché essa appariva un mondo totalmente estraneo e irreale. Oggi, naturalmente, al situazione è ancora peggiorata. Tuttavia è importante che nella catechesi, che comprende gli ambienti della scuola, della parrocchia, della comunità ecc., la fede continui ad essere pienamente valorizzata, che cioè i bambini imparino veramente che cosa sia “creazione”, che cosa sia “storia della salvezza” realizzata da Dio, che cosa sia, chi sia Gesù Cristo, che cosa siano i Sacramenti, quale sia l’oggetto della nostra speranza…Io penso che noi tutti dobbiamo, per esempio, impegnarci molto per un rinnovamento della catechesi, nella quale sia fondamentale il coraggio di testimoniare la propria fede e di trovare i modi affinché essa sia compresa ed accolta. Poiché l’ignoranza religiosa ha raggiunto oggi un livello spaventoso. E tuttavia, in Germania i bambini hanno almeno dieci anni di catechesi, dovrebbero quindi in fondo sapere molte cose. Per questo dobbiamo certamente riflettere in modo serio sulle nostre possibilità di trovare vie per comunicare, anche se in modo semplice, le conoscenze, affinché al cultura della fede sia presente”.
Cristo si trova al centro della catechesi. Il fine della catechesi è quello di condurre alla comunione con Gesù Cristo, attraverso una istruzione organica e completa in cui progressivamente si arriva a svelare nella persona di Cristo l’intero disegno di Dio.
La gioia di Gesù che rende grazie al Padre per aver “tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti” e averle “rivelate ai piccoli” (Mt 11,25), si estende a tutti coloro che partecipano alla missione salvifica di trasmettere la fede. E a tutti è possibile poiché Gesù ha effettuato l’emancipazione dei semplici, ha rivendicato anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, “filosofi”: vale a dire, di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti; anzi, meglio dei dotti. Le parole di Gesù sulla stoltezza dei sapienti e sulla sapienza dei piccoli (Mt 11,25) hanno proprio questo scopo: fondare il cristianesimo come religione popolare, come una religione in cui non vive un sistema a due classi.
Questa gioia viene inibita quando determinate formule di catechesi, anziché favorire l’incontro con Cristo vivo e presente, lo ritardano o addirittura lo impediscono.