2020 10 14 INDIA - Arrestato Padre Swamy, la solidarietà della Chiesa
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INDIA - Arrestato Padre Swamy, la solidarietà della Chiesa
L’anziano sacerdote è accusato di avere legami con i gruppi Maoisti. La Compagnia dei Gesuiti di Jamshedpur a cui appartiene, condanna l’arresto da parte delle forze governative e domanda l’immediato rilascio del confratello che “ha documentato e reso pubbliche le sofferenze di tanti giovani indigeni”. Dolore e supporto anche da parte della Conferenza episcopale indiana e dal vescovo ausiliare di Ranchi. L’Unione popolare per le libertà civili: un atto “inumano e insensibile” che ha smascherato la “pura vendetta” delle autorità
Padre Stan Swamy, gesuita di 83 anni e con problemi di salute, è stato prelevato dalla sua residenza a Ranchi (Jhark) e arrestato. A comunicare la notizia è stata la stessa Agenzia Nazionale di Investigazione (NIA) spiegando che il sacerdote è stato trasferito a Mumbai per essere interrogato sui fatti di Elgar Parishad risalenti al 2017.
Le accuse e gli interrogatori
La Nia accusa Padre Stan di avere legami con i gruppi Maoisti e di avere fomentato, con i suoi interventi durante la manifestazione tenutasi a Pune il 31 dicembre 2017, le violenze poi scoppiate nei villaggi circostanti, che portarono a conflitti a fuoco con le forze di sicurezza indiane, presenti nella zona in funzione antiterrorista. Il sacerdote è l’ultimo delle 16 persone fermate per gli stessi fatti. Tra questi figurano noti difensori dei diritti umani quali Arun Ferreira e Sudha Bharadwaj (entrambi avvocati) e gli scrittori Vernon Gonsalvez e Varavara Rao.
Il gesuita, che appartenente alla Provincia della Compagnia di Gesù di Jamshedpur, ha prestato servizio negli ultimi 15 anni a Bagaicha, in un Centro di Azione Sociale diretto dalla Compagnia, dedicandosi per lo più alla tutela della comunità indigena degli Adivasi. Già in passato, al presbitero è stato contestato lo stesso “reato” tanto che la sua stanza è stata perquisita la prima volta il 28 agosto 2018 e una seconda il 12 giugno 2019. Lui stesso è stato interrogato per più di 15 ore nell’arco di 5 giorni a luglio e agosto scorso.
Padre Swany che probabilmente prevedeva il suo arresto - riporta il sito giornalistico The Wire - alcuni giorni fa aveva registrato un lungo video in cui spiegava come si erano svolti gli interrogatori subiti. Inoltre, in un messaggio fatto recapitare prima del suo arresto ad attivisti per i diritti, avvocati e giornalisti, il gesuita scriveva delle false accuse che gli venivano mosse e della fabbricazione di false prove contro di lui. Nel messaggio si legge anche la frase “...nella speranza che il senso di umanità prevalga”.
Le modalità dell’arresto
“Non abbiamo idea di dove sia ora”, ha dichiarato all’agenzia UCA il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Ranchi, Theodore Mascarenhas. “Siamo preoccupati per la sua salute, dopo che la NIA lo ha portato via violando la procedura di comportamento anti Covid-19”. Il vescovo Mascarenhas, ex segretario generale della Conferenza episcopale cattolica dell’India (CBCI), ha criticato anche la tempistica in cui tutto è accaduto. “È molto triste che un’agenzia investigativa di primo piano come la Nia non abbia potuto trovare il tempo di interrogare durante il giorno una persona così anziana che ha sempre collaborato alle indagini”. “Il momento del loro arrivo alla residenza del sacerdote, dopo che il sole è tramontato e le tenebre sono calate, forse manifesta i disegni malvagi di chi si occupa del caso”.
Sempre secondo quanto riportato dall’Agenzia cattolica UCA, l’Unione popolare per le libertà civili ha condannato l’arresto di padre Swamy, descrivendolo come atto “inumano e insensibile” che ha smascherato la “pura vendetta” delle autorità.
La voce dei vescovi indiani
Fermo l’appello della Conferenza episcopale indiana alle autorità per il rilascio immediato di Padre Stan Swamy. Nel comunicato a firma del Segretario generale della CBCI, si legge come l’intera comunità cristiana sia sempre stata elogiata da tutti come una realtà costituita da cittadini leali, rispettosi della legge e al servizio della Madre India. “La comunità cristiana - prosegue la nota - ha sempre contribuito alla costruzione della nazione e continua a collaborare con il governo nella realizzazione del bene comune di tutti gli Indiani e del progresso della nostra nazione”. Allo stesso tempo, i vescovi chiedono “che i diritti, i doveri e i privilegi di tutti i cittadini siano debitamente salvaguardati e che la pace prevalga su tutto”.
L’impegno verso gli umili
“Padre Stan ha dichiarato di aver sempre rispettato i dettami della Costituzione Indiana e di aver fatto uso esclusivamente di mezzi pacifici per esprimere il suo dissenso nei confronti delle ingiustizie commesse ai danni degli Adivasi” si legge nel comunicato pubblicato sul sito della Compagnia. “Si è sempre detto contrario ad ogni abuso di potere da parte dello Stato e delle Forze dell’Ordine che, in nome dell’antiterrorismo, si impossessa di terreni senza previo confronto con le comunità che lì vivono. Inoltre” aggiungono i Gesuiti “Il confratello ha documentato e reso pubbliche le sofferenze di tanti giovani indigeni che sono stati vessati e incarcerati per aver difeso i loro spazi”.
La richiesta e l’auspicio dei confratelli
Ora il sacerdote è detenuto ai sensi della Legge sulle Attività Illegali del 1967, in base alla quale l’uscita su cauzione viene negata all’imputato. “Come gesuiti impegnati nella formazione, nell’educazione e nella difesa dei diritti dei poveri e dei vulnerabili in tutto il mondo, esprimiamo la nostra vicinanza a Padre Stan e agli altri difensori dei diritti umani in India, e condanniamo fermamente l’arresto chiedendo il suo rilascio immediato. L’auspicio è quello che non vengano più emessi mandati di cattura e arresti arbitrari nei confronti di cittadini onesti e rispettosi della legge” conclude il comunicato.
(Davide Dionisi - Città del Vaticano10.10.2020 RV)
MALAWI - Profanata una chiesa, è la terza in due mesi; “Il governo faccia tutto il possibile per proteggere i cittadini, compresa la Chiesa cattolica” dice il Vescovo di Mangochi
“Ci aspettiamo che il governo faccia tutto il possibile per proteggere i cittadini del Malawi, compresa la Chiesa cattolica. Tuttavia, so che il governo non può mettere la polizia a casa di tutti. Mi appello quindi a tutte le persone per affrontare insieme tali attacchi”, ha detto Sua Ecc. Mons. Montfort Stima, Vescovo di Mangochi, dopo una serie di assalti a parrocchie e convenuti nella sua diocesi.
L’ultimo raid di banditi armati risale alla notte del 7 ottobre. Presa di mira è stata la parrocchia di Nsanama a Machinga. I malviventi se ne sono andati dopo aver rubato contanti, un laptop, telefoni cellulari e la Santa Eucaristia.
Il parroco di Nsanama, p. Matthew Likambale, ha detto che i rapinatori hanno attaccato il guardiano prima di entrare in convento. “Vi voglio sapere che abbiamo passato una notte terrificante dopo che i ladri hanno attaccato il Convento delle Suore Canossiane. Mi stavano cercando. Hanno fatto pressioni sulle suore per rivelare dove mi trovassi, ma queste hanno continuato ad affermare che non ero in convento” ha riferito ai parrocchiani p. Likambale.
“Sono entrati nel convento dopo aver colpito il guardiano, con una sbarra di metallo e un machete, poi lo hanno legato. Sono quindi penetrati nel convento, hanno aperto il Tabernacolo, hanno preso il Santissimo Sacramento (Eucaristia) e poi si sono recate nelle stanze delle suore”, ha detto padre Likambale.
Questo è il terzo grave attacco alle istituzioni cattoliche in due mesi; prima la parrocchia cattolica di San Patrizio nell’arcidiocesi di Lilongwe; poi la parrocchia di Kankao nella diocesi di Mangochi; e ora nella parrocchia di Nsanama sempre nella stessa diocesi di Mangochi. (L.M.)
(Agenzia Fides 12/10/2020)
AZERBAIGIAN - Nagorno Karabakh, missili sulla cattedrale armena di Shushi. Il Patriarca Karekin II: c’è chi punta alla “guerra di religione”
La cattedrale armena della città di Shushi, nel Nagorno Karabakh, dedicata a Cristo Salvatore, è stata colpita ieri, giovedì 8 ottobre, da un lancio di missili che hanno provocato ingenti danni al luogo di culto cristiano, sia sul tetto che all’interno dell’edificio. Le autorità dell’Armenia hanno attribuito il bombardamento all’esercito dell’Azerbaigian, nel contesto della nuova escalation militare in atto nella regione, ennesimo episodio del conflitto trentennale che in quell’area vede contrapporsi le due ex repubbliche sovietiche (vedi Fides 3/10/2020). Le autorità politiche e militari di Baku, dal canto loro, hanno respinto le accuse del governo armeno, sostenendo che “a differenza delle forze armate armene, quelle dell’Azerbaigian non colpiscono obiettivi di importanza storica e culturale e specialmente edifici religiosi e monumenti”.
Costruita tra il 1868 e il 1887, alta 30 metri, la cattedrale di Cristo Salvatore fu anche utilizzata come deposito di armi dall’esercito azero all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, durante la prima esplosione del conflitto.
Nei giorni scorsi, il Patriarca supremo Karekin II, Chatolicos di tutti gli Armeni, in una intervista rilasciata ad Armenpress ha respinto i tentativi di attribuire all’escalation militare in atto in Nagorno Karabakh il carattere di conflitto religioso tra cristiani e musulmani. “Il popolo armeno” ha detto il Patriarca Karekin “si è sparso per tutto il mondo a partire dal Medio Evo, e ancora di più dopo il Genocidio degli armeni nella Turchia ottomana. Molti Paesi islamici hanno teso una mano fraterna ai figli del popolo armeno sopravvissuti al Genocidio, e li hanno accolti. Queste comunità armene esistono ancora. La nostra Santa Chiesa armena apostolica conta diocesi e parrocchie in una dozzina di Paesi a maggioranza musulmana, dove i figli e le figlie del nostro popolo vivono come cittadini esemplari, contribuendo alla prosperità di quelle nazioni e godendo dell’attitudine amichevole delle autorità locali”.
Il Patriarca Karekin ha anche ricordato che fin dall’inizio del conflitto in Nagorno Karabakh, “grazie alla mediazione dei Patriarchi della Chiesa russa, aveva preso forma una piattaforma di riunioni trilaterali, con la partecipazione del capo dei musulmani del Caucaso e del Catholicos di tutti gli Armeni. Nel corso di quegli incontri, è stato rimarcato a più riprese che il conflitto in Karabakh non ha una radice religiosa. E’ stata anche ribadita la necessità di una coesistenza pacifica e concorde tra le popolazioni cristiane e musulmane della nostra regione”. Adesso – ha aggiunto il Catholicos di tutti gli Armeni – “assistiamo regolarmente ai tentativi del Presidente azero di attribuire una valenza religiosa al conflitto del Karabakh. Si tratta di una provocazione che purtroppo può avere conseguenze terribili”. (GV) (Agenzia Fides 9/10/2020)
LIBERAZIONE DI PADRE MACCALLI
Padre Gigi è libero e sta bene. Dal Mali dove è avvenuto il rilascio e sul web si sono moltiplicati i messaggi di gioia, sul fronte istituzionale e religioso. Il padre missionario della provincia di Crema, 59 anni, della Società Missione Africane, Pierluigi Maccalli, era stato rapito in Niger al confine col Burkina Faso, nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018, da miliziani jihadisti. Prestava la sua opera nella parrocchia di Bomoanga, diocesi di Niamey. Il sequestro era avvenuto una settimana dopo il rientro di padre Gigi da un periodo di vacanze in Italia dove la sua diocesi di origine non aveva mai perso le speranze di riabbracciarlo e ogni 17 del mese da due anni, ha celebrato un Messa o una Veglia in suo ricordo e in preghiera.
Un ricordo, scritto prima della notizia del suo rilascio
NIGER - A due anni dal rapimento di p. Gigi Maccalli: “C’è sempre, da qualche parte, qualcuno che tradisce gli amici”
“Era notte quando ti hanno portato via e da allora sono passati due anni di tenebre solo interrotte da un breve messaggio video il 24 marzo scorso, primo e per ora unico segno di vita. Ci sono state testimonianze, racconti, ipotesi, ricerche e forse trattative, sappiamo poco di tutto questo”. Scrive così all’Agenzia Fides padre Mauro Armanino, sacerdote della Società per le Missioni Africane, confratello di p. Gigi Maccalli, rapito da Bomoanga il 17 settembre 2018.
Il missionario rivolge al confratello/amico un pensiero particolare ricordando uno dei tanti eventi condivisi. “Caro Gigi, quando abbiamo avuto l’incidente d’auto in quel di Padova, siamo stati per qualche giorno nello stesso ospedale. Mi avevi fatto pervenire un biglietto scritto a mano, nella fonetica del ‘nostro’ kulango della Costa d’Avorio, chiedendo scusa per l’accaduto. Eri stato salvato per un gioco del destino perché guidavi tu e mi stavi accompagnando alla stazione ferroviaria, con la consueta disponibilità. Chissà perché mi è tornato in mente questo particolare, a pochi passi dal secondo anniversario del tuo sequestro ad opera di sconosciuti, nella notte del 17 settembre. Sarà forse a causa di quel miracolo chirurgico che ha ricostruito le parti lese del tuo corpo, i ferri nelle ossa e la forzata immobilità che ti aveva stranamente preparato all’attuale prigionia”. “Ora i ferri sono altri e somigliano a chiodi inflitti nei polsi e nei piedi, il costato già era ferito dagli anni passati assieme nella stessa missione a Bondoukou” aggiunge p. Armanino.
Il missionario ripercorre con il pensiero un altro episodio, e dice: “Tornavano in contemporanea centinaia di pellegrini dalla Mecca ed è a loro che si dava la priorità al momento di uscire dall’aeroporto Diori Hamani di Niamey. Nell’attesa del tuo aereo ripensavo che al mio primo arrivo nel paese, nel mese di aprile del 2011, eri tu ad accogliermi ed accompagnarmi nella casa dove abito da allora. La tua camera, i confratelli sorridendo ti prendevano a volte in giro, era la numero due. Lì lasciavi le tue cose, nell’armadio metallico per le visite quindicinali, destinate all’acquisto di quanto necessario per vivere con dignità a Bomoanga, a oltre 130 chilometri da Niamey, in zona semidesertica. Portavi sempre notizie dal profondo, dai poveri contadini e delle piccole e fragili speranze che cercavi di condividere attraverso progetti di attento umanesimo integrale. Avevi dormito in quella camera per l’ultima sera prima di partire per la tua zona e, assieme ad alcuni amici, avevamo cenato nel ristorante italiano di Niamey, il noto ‘Pilier’. L’ambasciatore ci aveva offerto quella che, commentando con lui ed altri, sarebbe stata l’ultima nostra cena prima del dramma. In quella cena c’erano tutti. I poveri, i bambini dei quali ti occupavi, la piccola deceduta al ‘Bambin Gesù’ di Roma in un disperato tentativo di salvarla, gli animatori, le famiglie, i giovani che aiutavi, assieme ad altri, per continuare gli studi o la formazione professionale. Forse c’era tra loro anche un Giuda. C’è sempre da qualche parte qualcuno che tradisce gli amici, che avrebbe informato, coscientemente o meno, i rapitori sul tuo ritorno e delle tue abitudini serali. Era notte e coloro che ti avrebbero poi rapito conoscevano che non chiudevi subito la porta della camera. Veniva gente per cercare medicine per le urgenze che, in un villaggio sperduto e senza servizi sociali, non mancano mai. Sapevano che c’era una luce e una porta che si apriva con il sorriso di una speranza ormai a portata di mano.”
Padre Armanino continua a pregare per il suo confratello ricordando “l’ultima notte a Bomoanga, che neppure si trova nelle mappe più sofisticate di Google, ultimo o quasi di piccoli borghi senza futuro, se non quello che lui e la comunità cristiana cercavano di offrire. Una scuola media, un possibile convitto e soprattutto la necessità di offrire ragioni di rimanere sul posto con dignità.”
(MA/AP) (15/09/2020 Agenzia Fides)
Gioia per il rilascio ma la situazione in Mali è drammatica
MALI - La vicenda di p. Maccalli è un esempio dell’instabilità che colpisce il Sahel
Il sequestro iniziato in Niger e conclusosi in Mali, quello di p. Pier Luigi (Gigi) Maccalli, esemplifica l’agire transfrontaliero dei gruppi jihadisti che operano nel Sahel. Frontiere di sabbia, frontiere mobili, facilmente attraversabili da piccole formazioni armate che non si muovono più a cavallo o su cammelli ma in motocicletta e pick up armati (le famose “tecniche” viste nel conflitto somalo e in diversi altri teatri di guerra).
Ufficialmente la liberazione del missionario italiano insieme a quella di un suo connazionale Nicola Chiacchio, presumibilmente rapito in Mali, è avvenuta l’8 ottobre insieme a quella dell’operatrice umanitaria francese Sophie Petronin, liberata al termine di 1.380 giorni di prigionia dopo essere stata rapita in Mali nel dicembre del 2016 e del leader maliano dell’opposizione Soumaïla Cissé, rapito il 25 marzo di quest’anno.
Il contesto nel quale è avvenuta la liberazione degli ostaggi è complesso. Il Mali vive un momento difficile dopo che a Bamako si è installato il 5 ottobre un governo di transizione sotto l’egida dei militari che hanno rovesciato il Presidente Ibrahim Boubacar Keïta, lo scorso 18 agosto.
Il nuovo esecutivo ha liberato almeno 200 persone, presentate come membri di gruppi jihadisti ma sulla cui identità si sa poco. La loro scarcerazione potrebbe essere una delle richieste dei rapitori in cambio della liberazione degli ostaggi, tutti rapiti in Mali, tranne p. Maccalli che era stato sequestrato la sera del 17 settembre 2018 nella missione di Bomoanga, a circa 150 chilometri dalla capitale nigerina, Niamey, al confine con il Burkina Faso. Circostanza che aveva fatto pensare inizialmente che l’ostaggio fosse stato portato in quel Paese.
Ricordiamo che in Mali manca ancora all’appello la suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita i’8 febbraio 2017 nel villaggio di Karangasso (vedi Fides 9/02/2017).
Un confratello di p. Maccalli della Società delle Missioni Africane (SMA) che anche lui opera in Niger, p. Mauro Armanino in un messaggio inviato all’Agenzia Fides sintetizza così le circostanze della liberazione del missionario. “Un cambio di governo, i militari al comando, trattative in atto probabilmente in segreto, un ruolo probabile di regia francese ed ecco che accade lo scambio. Prigionieri di sabbia per prigionieri di sabbia. Una libertà che arriva di notte, come il suo rapimento e d’improvviso si apre un futuro rimasto imbavagliato per anni. Persi, trovati, abbandonati, arrestati, deportati, coltivati e rimasti sospesi per anni, gli anni. In cambio di altri prigionieri, innocenti o assassini di altri per la loro libertà”.
Le frontiere di sabbia del Sahel permettono ai gruppi jihadisti di attraversale impunemente gettando nello scompiglio nei Paesi della regione, Mali, Niger, Burkina Faso, ai quali occorre aggiungere altri Stati vicini attraversati da gravi instabilità, la Repubblica Centrafricana e il Camerun. La vicenda di p. Maccalli, conclusasi positivamente, è solo un esempio dell’intrecciarsi delle instabilità transfrontaliere che nella fascia saheliana hanno provocato quasi tre milioni di sfollati e rifugiati. (L.M.) (Agenzia Fides 9/10/2020)