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2020 03 04 Anniversario della uccisione di Shahbaz Batti

Fonte:
CulturaCattolica.it
PAKISTAN - Nell’anniversario del “martire” Shahbaz Batti, giovane cristiano ucciso per aver usato l’acqua di un pozzo. Gli assassini già liberi. BURKINA FASO - 700 mila sfollati per gli attacchi jihadisti

PAKISTAN - Cristiano ucciso per aver usato l’acqua di un pozzo

“Condanniamo fermamente l’uccisione brutale di Saleem Masih: tale atto di discriminazione e pregiudizio rivela l’ignoranza e la massima altezza di intolleranza delle persone coinvolte nell’uccisione di giovani cristiani”: così p. Qaisar Feroz OFM Cap, Segretario esecutivo della Commissione episcopale per le comunicazioni sociali, commenta all’Agenzia Fides l’episodio dell’omicidio del 22enne Saleem Masih, torturato e ucciso perché reo di “aver contaminato” il pozzo da cui aveva attinto acqua per lavarsi dopo il lavoro. Il giovane, apostrofato con il termine dispregiativo “choora” (sporco, intoccabile), è stato percosso e torturato con una sbarra di ferro rovente. Trasportato all’ospedale di Lahore, capoluogo del Punjab, è deceduto il 28 febbraio, tre giorni dopo l’aggressione subita nel villaggio di Baguyana, all’interno del distretto di Kasur, in Punjab. Prosegue P. Qaisar: “È triste sapere che una persona viene uccisa per essersi lavata ad un pozzo, con l’accusa di aver inquinato l’acqua del pozzo. Saleem si stava sciacquando dopo aver lavorato nei campi agricoli. Urge cambiare questa mentalità: dobbiamo trattare tutti come esseri umani, ma molta gente è piena di odio per i non musulmani. Ora ha perso la vita un altro essere umano”.
Sabir Michael, rinomato attivista per i diritti umani e per i diritti delle minoranze, parlando con Fides dichiara: “Esprimo la mia seria preoccupazione per questo incidente perché tali incidenti si verificano in sequenza contro le minoranze religiose in Pakistan che sono socialmente, economicamente e politicamente svantaggiate. Questo omicidio mostra che il governo e le autorità statali sono incapaci di controllare tali discriminazioni e persecuzioni a causa della fede”. Michael inoltre afferma: “Noi, come comunità cristiana, chiediamo giustizia per Saleem Masih e chiediamo l’arresto immediato dei colpevoli. Il caso deve essere condotto in un tribunale antiterrorismo: questo è un atto di terrore, non si può uccidere la gente per questioni di tale entità”.
Nasir Saeed, direttore dell’Ong “CLAAS” (Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement) nota a Fides: “Vogliamo che la famiglia di Saleem ottenga giustizia e gli assassini stiano dietro le sbarre. Ma, poiché gli autori del crimine sono persone influenti, non sarà facile, perché la polizia pakistana è spesso di parte quando si tratta di casi tra musulmani e non musulmani”. “In questo stesso distretto - ricorda - i coniugi cristiani Shama e Shahzad Masih furono bruciati vivi dopo false accuse di blasfemia nel 2014. Il noto caso di Asia Bibi era simile: la lite iniziò per una fonte d’acqua. Il giovane studente Javed Anjum è stato torturato per cinque giorni per aver bevuto acqua dal rubinetto di una madrasa (scuola islamica), ma non è riuscito a sopravvivere ed è morto dopo 11 giorni in ospedale”.
Nasir Saeed rileva che “questo non è un caso isolato, ma tali casi si verificano ogni giorno in tutto il Pakistan e spesso non sono stati riportati dai media. “È necessario prendere provvedimenti e ristabilire la giustizia, fermare la tortura e il trattamento discriminatorio su base religiosa”, conclude. (AG-PA) (Agenzia Fides 2/3/2020)

Liberati in Pakistan i due assassini del cristiano massacrato al pozzo

“Siamo scioccati, ma vogliamo giustizia per Saleem”. È il grido di dolore di Ghafoor Masih, padre del 22enne cristiano assassinato in modo brutale da un gruppo di fanatici islamici a Bhagyana, un villaggio nel distretto pachistano di Kasur (Punjab), perchè “intoccabile”. Saleem è morto il 28 febbraio all’ospedale di Lahore dopo tre giorni di agonia.
Le due persone arrestate in un primo momento sono però state subito rilasciate su cauzione. Una di loro ha poi dichiarato che qualunque cristiano osasse tornare sui loro terreni farà la stessa fine di Saleem. I famigliari accusano la polizia di non fare nulla per risolvere il caso e di aver preso le parti del proprietario terriero e dei suoi complici. Il giovane è stato assalito mentre si bagnava in una vasca per l’irrigazione agricola. Per i carnefici, la sua colpa è quella di aver “insudiciato” le acque del bacino di raccolta, che appartiene a un notabile musulmano del luogo.
Parlando ad AsiaNews, Ghafoor dice che l’intera comunità locale, inclusi i vicini musulmani, ha condannato il barbaro assassinio del figlio. Molti ora chiedono che agli assassini sia riservato lo stesso trattamento subito da Saleem. A Bhagyana vivono circa 150-200 cristiani. Waris Masih, un fedele amico della vittima, lo descrive come un bravo ragazzo che con il suo lavoro manteneva la numerosa famiglia: “Saleem non ha mai fatto nulla che potesse infastidire gli altri. Tutti noi resteremo vicini ai suoi cari e lotteremo perché i colpevoli paghino per quello che anno fatto”. Ghaffor racconta che il figlio aveva appena finito il suo lavoro nei campi, quando è stato tirato fuori dalla vasca e trascinato in una vicina fattoria. Lì, una volta incatenato, è stato colpito più volte. I suoi aguzzini lo hanno poi torturato con dei cavi elettrici e una mazza di ferro incandescente, non risparmiando neanche i genitali, per poi gettarlo agonizzate in un campo. Trovato da passanti e portato in ospedale dalla famiglia, Saleem è morto per le fratture multiple riportate in tutto il corpo e per i danni al fegato e ai reni. Al suo funerale, il 29 febbraio, il ministro provinciale per i Diritti umani e le Minoranze, Ijaz Aalam, ha assicurato che giustizia sarà fatta.
Nadeem Anthony, un avvocato per i diritti umani in contatto con la famiglia della vittima, sostiene che il brutale omicidio è l’ultimo di tanti casi di violenza contro i cristiani nel Paese. Secondo lui, l’intolleranza e l’odio religiosi alimentano il fanatismo, ma le autorità fanno poco o niente per contrastare la situazione, arrivando sino a negare l’esistenza di discriminazioni. Data la gravità dei fatti, l’attivista chiede l’intervento delle massime autorità giudiziarie pachistane.
(Avvenire Redazione Esteri martedì 3 marzo 2020)

TUTTO QUESTO nell’ANNIVERSARIO

PAKISTAN - Le commemorazioni del “martire” Shahbaz Bhatti, vero patriota

“Shahbaz Bhatti è stato un autentico patriota, un vero figlio del Pakistan. La sua memoria fa onore al nostro paese. La ragione è questa: ha dato la vita per promuovere un Pakistan dove il diritto, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza fossero principi rispettati e vissuti. Questo impegno era a tutto vantaggio del Pakistan: la sua lotta per la giustizia e per il bene comune è stata un beneficio per l’intera nazione e per la sua immagine all’estero. Lo ricordiamo oggi come vittima della violenza e del terrorismo. ma la sua testimonianza non cadrà nel vuoto e non verrà meno: tante persone sono pronte a continuare la sua campagna per la giustizia, la pace e la convivenza”: lo dice all’Agenzia Fides, Paul Bhatti, in occasione dell’anniversario della morte di suo fratello Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2 marzo 2011. Paul Bhatti attualmente guida la Fondazione “Missione Shahbaz” che promuove progetti di sviluppo in nome del leader, ed è presidente della “All Pakistan Minorities Alliance” (APMA), continuando l’opera del fratello ucciso.
In molte chiese del Pakistan si tengono oggi messe di suffragio e momenti di commemorazione di Shahbaz. A Islamabad, sul luogo del delitto, è prevista una celebrazione con la presenza di leader e fedeli cristiani, musulmani, rappresentanti della società civile e della politica, diplomatici, convocati dall’APMA. Si ricorderà l’impegno si Bhatti per i poveri, gli oppressi, per il diritto e la tutela delle minoranze religiose, e il contributo che Shahbaz ha dato alla nazione.
Il 4 marzo una solenne commemorazione si terrà a Kushpur, il villaggio natio di Shahbaz Bhatti. Su un terreno di famiglia che ospita un museo a lui dedicato, e dove verrà eretto un mausoleo in suo nome, trasportando lì le sue spoglie mortali, oltre duemila persone, giunte da tutto il circondario e da altri luoghi della nazione, si raduneranno per ricordare l’eredità umana e spirituale che Shahabz ha lasciato. (PA) (Agenzia Fides 2/3/2020)

BURKINA FASO - 700 mila sfollati per gli attacchi jihadisti

Visita di Acs-Italia nei campi profughi nel nord del Paese. Il direttore Alessandro Monteduro: se non si interviene subito si rischia una situazione simile a quella dei cristiani in Iraq

Con oltre 700 mila sfollati il Burkina Faso vive una grave crisi umanitaria a causa delle insistenti incursioni jihadiste. Intere famiglie sono costrette a lasciare i propri villaggi per raggiungere i campi profughi. Nell’ultimo anno e mezzo si sono poi moltiplicati gli attacchi contro le chiese locali, rendendo sempre più difficile la vita di sacerdoti e fedeli.

400 mila bambini sfollati
“Nella sola provincia di Dori 110 villaggi sono stati abbandonati”, afferma Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia, appena tornato dal Burkina Faso dopo aver visitato quattro campi profughi nella regione di Kaya, nel nord del Paese. “Parliamo di un Paese di 18 milioni e settecentomila abitanti all’interno del quale ad oggi ci sono 795 mila sfollati interni, secondo i dati ufficiali del governo burkinabè. Tra questi 400 mila sono bambini”, afferma sottolineando come gli sfollati siano tanto musulmani quanto cristiani.
Le comunità cacciate dagli islamisti si sono mosse in gruppo ricreando in un qualche modo i villaggi abbandonati a 100-150 chilometri di distanza. “Troviamo questi accampamenti, fatti dai componenti di un villaggio, come se quelle centinaia di villaggi abbandonati e desertificati si stessero spostando tutti assieme, ricomponendosi in altri luoghi”, spiega ancora Monteduro.

Famiglie che non hanno nulla
La maggior parte degli abitanti di questi campi improvvisati sono donne o bambini. “Gli uomini o sono rimasti tentando di mantenere il lavoro - buona parte di loro allevano il bestiame - o si sono trasferiti per lavorare in luoghi più sicuri anche in Paesi confinanti come il Mali, il Niger, o il Benin”, afferma ancora il direttore di Acs. Molti poi si sono trasferiti nella capitale e cercano di produrre un reddito “per delle famiglie che oggi non hanno veramente nulla”.

Pochi gli aiuti internazionali
Le condizioni di vita negli accampamenti sono particolarmente difficili. “Si vive in situazioni di fortuna”, spiega Monteduro, “con delle tende composte da quattro bastoni di legno e una copertura di plastica, con dei servizi igienici indegni di qualsiasi contesto umano e difficoltà a procurarsi il cibo”. “A parte la Caritas e Aiuto alla Chiesa che Soffre non c’è ancora alcuna organizzazione umanitaria presente”, sottolinea, “c’è soltanto la presenza dell’Unchr in alcuni campi gestiti dal governo, ma se qui non ci dovesse essere nelle prossime settimane una grande mobilitazione della carità - come c’è stata nel 2014 in Iraq a seguito della cacciata di cristiani dalla piana di Ninive -, per queste donne per questi bambini per questi nuclei famigliari, per questi villaggi sarà realmente drammatico continuare a vivere”.

Una fede straordinaria
La delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre ha poi incontrato i vari esponenti della Chiesa locale, dal cardinale Philippe Ouedraogo, vescovo di Ouagadougou, ai vescovi e alle vittime degli attacchi jihadisti: catechisti e seminaristi continuamente braccati dai gruppi fondamentalisti. “Alcuni catechisti che si erano rifugiati in un campo sono stati cercati, ma sono stati protetti dalla massa delle persone”, spiega Monteduro, “poi di notte sono stati nuovamente costretti a fuggire nella foresta, a nascondersi e a trasferirsi ancora”. “È straordinario riscontrare la fede che li nutre perché non è possibile per noi immaginare cosa possa significare per un giovane aspirante al sacerdozio aspirarvi in una terra di persecuzione e di sofferenza”.
(03 03 2020 Michele Raviart – Città del Vaticano)

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