2018 11 07 EGITTO Commando apre il fuoco su tre bus di cristiani. 11 morti 19 feriti CAMERUN - Rapiti 79 studenti cristiani a Bamenda PAKISTAN - La famiglia di Asia Bibi vive nascosta e chiede aiuto all'Italia
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EGITTO – Commando apre il fuoco su tre bus di cristiani. 11 morti 19 feriti
I cristiani nel mirino del terrorismo. In Egitto un commando dell'Is ha aperto il fuoco su tre bus di copti e sparato all'impazzata. 11 morti, 19 feriti.
Uccisi a bruciapelo senza quasi il tempo di reagire. E’ finito in un bagno di sangue il pellegrinaggio al monastero di San Samuele Confessore, sulla strada fra Sohag e Minya, a sud-ovest del Cairo, di alcuni cristiani copti che viaggiano su tre autobus distinti. L’attacco, ad opera di un commando di miliziani, è stato subito rivendicato dall’Is. I jihadisti hanno bloccato i mezzi e imposto ai pellegrini di scendere, aprendo poi il fuoco in modo indiscriminato. Il bilancio è di 11 morti ma potrebbe aggravarsi per le serie condizioni in cui versano alcuni dei feriti.
Fermare la spirale di odio
“Un episodio di violenza che viene a turbare un periodo in cui sembrava si fossero ritrovate serenità e sicurezza. Siamo ricaduti in questa spirale di violenza e di odio che condanniamo con fermezza”. Con queste parole il nunzio apostolico in Egitto, mons. Bruno Musarò, ha commentato l’attacco criminale. “In questo momento – ha affermato il nunzio – non possiamo che essere vicini alle famiglie delle vittime, ai feriti e pregare per loro. Al tempo stesso, come ci esorta Papa Francesco, bisogna alimentare la speranza”.
La vicinanza della Chiesa cattolica a quella copta ortodossa
Mentre la città di Minya si prepara a seppellire i propri morti, vicinanza alle famiglie delle vittime e ai feriti è stata espressa anche da padre Hani Kiroulos, portavoce della Chiesa copto-cattolica egiziana, convinto che si sia trattato di un attentato analogo a quello avvenuto a maggio del 2017. In quell’occasione i morti furono oltre 30, tutti pellegrini diretti verso lo stesso monastero.
La reazione dell’Islam sunnita
Parole dure arrivano anche da Al-Azhar, massima istituzione dell’Islam sunnita con sede in Egitto: “I responsabili di questo vile attacco terroristico sono criminali privi dei valori fondamentali dell’umanità - si legge in una nota -, lontani quanto mai dagli insegnamenti delle religioni che fanno appello alla coesistenza e alla pace, alla rinuncia della violenza e dell’odio e che condannano l’uccisione di innocenti”.
Copti da sempre nel mirino dell’Is
I copti, importante minoranza etnico-religiosa del Paese, la più grande comunità cristiana del Medio Oriente che rappresenta circa il 10-15% dei cento milioni di egiziani, sono da anni nel mirino dei jihadisti per il loro sostegno al presidente al-Sisi che, nella rivolta popolar-militare del 2013, scacciò i Fratelli Musulmani e salvò i copti dal rischio di divenire cittadini di “serie b” sotto il regime teocratico della Fratellanza. Gli attentati, dunque, che hanno funestato la comunità già nell'aprile 2017 ad Alessandria e Tanta, quando vi furono 45 morti in totale e al Cairo nel dicembre 2016, con 29 vittime, “sono di fatto un’azione punitiva - spiega Giuseppe Dentice, analista esperto di Egitto dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionali -, ma si inquadrano anche in un tentativo, da parte dell’Is, di creare una spaccatura del Medioriente in generale e della società egiziana in particolare, così da renderla fragile di fronte all’azione terroristica”. Difficile per il presidente Al Sisi arginare il fenomeno, benchè quest’ultimo, sottolinea Dentice, “si sia certamente ridimensionato rispetto al passato”.
Comunità cristiana, pilastro della società egiziana
Le difficili condizioni per i cristiani copti d’Egitto, hanno costretto circa 100mila persone, soprattutto durante il governo di Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, ad esilio forzato. Un'emigrazione che si è tradotta in un considerevole danno all’economia egiziana per la fuga di imprenditori, medici e avvocati che costituivano l'ossatura della borghesia produttiva del Paese. Ma “coloro che restano – aggiunge Dentice- continuano a rappresentare uno dei pilastri fondamentali della società egiziana”.
(2019 11 02 Radio Vaticana Paola Simonetti e Cecilia Seppia)
CAMERUN - Rapiti 79 studenti cristiani a Bamenda
Si aggrava la crisi nelle regioni anglofone del Camerun, dove il 5 novembre, a Bamenda, nel nord-ovest del Paese, sono stati rapiti 79 studenti e 3 responsabili della locale scuola secondaria presbiteriana. Gli studenti rapiti sono stati portati via insieme al preside della scuola, a un autista e a un docente dell'istituto. Il governatore della regione, Adolphe Lele Lafrique, ha confermato il rapimento. Gli studenti sequestrati hanno un'età compresa tra gli 11 e i 17 anni. I rapitori non chiedono un riscatto, ma la chiusura della scuola, secondo quanto riferito dal reverendo Samuel Fonki Forba, a capo della chiesa presbiteriana camerunense.I rapitori apparterrebbero agli “Amba boys”, i separatisti anglofoni. Il grave episodio è avvenuto alla vigilia della cerimonia del giuramento del Presidente Paul Biya, di recente rieletto per la settima volta.
La crisi nelle regioni anglofone si è aggravata quando, un anno fa, è stata proclamata la loro secessione (vedi Fides 2/10/2018). Più di 200.000 persone sono state costrette a fuggire a causa delle violenze dell’esercito e degli scontri tra i militari e i gruppi secessionisti.
A Douala la Chiesa cattolica ha organizzato una raccolta fondi a favore degli sfollati. "La nostra città di Douala è la patria di migliaia di sfollati che hanno abbandonato le loro città, villaggi e proprietà nella speranza di trovare rifugio, sopravvivenza e soccorso da noi” si legge nella lettera inviata ai parroci della arcidiocesi da parte di Sua Ecc. Mons. Samuel Kleda, Arcivescovo di Douala e Presidente della Conferenza Episcopale Nazionale del Camerun (CENC), che ha indetto una colletta straordinaria che si è tenuta domenica scorsa, 4 novembre.
Le violenze non risparmiano la Chiesa cattolica né le altre denominazioni cristiane. Oltre al rapimento degli studenti della scuola battista, sempre a Bamenda il 30 ottobre, Charles Wesco, un missionario battista, è stato ucciso negli scontri tra forze lealiste e secessionisti. Il 4 ottobre era stato ucciso un seminarista cattolico, Gerard Anjiangwe (vedi Fides 16/10/2018). Il 23 luglio p. Alexandre Sob Nougi, parroco di Bomaka, nel sud-ovest, è stato ucciso da individui armati non identificati (vedi Fides 23/7/2018).
Le proteste dei secessionisti sono originate dalla richiesta degli abitanti delle regioni anglofone di usare l’inglese nell’insegnamento e nelle attività amministrative, e di adottare il sistema della Common Law di origine britannica al posto del diritto fondato sul codice di stampo francese. Sottolineando che non è compito della Chiesa definire la forma dello Stato, la Commissione “Giustizia e Pace” chiede che sia applicata la decentralizzazione, inscritta nella Costituzione, in modo da venire incontro alle richieste delle regioni anglofone. (L.M.) (Agenzia Fides 6/11/2018)
La storia recente del Camerun
In Camerun, ex colonia francese dell'Africa occidentale, è in atto una guerra strisciante dal 2016, da quando cioè le due principali regioni di lingua inglese, quella nord-occidentale e quella sud-occidentale, hanno annunciato la volontà di separarsi dal resto del Paese, per costituire una nuova nazione. In particolare, quella del nord-ovest è una regione ad alto rischio, sia per le incursioni del gruppo islamista Boko Haram sia per il conflitto che contrappone il governo di Yaoundè ai gruppi secessionisti radicati nelle regioni anglofone.
Il Camerun anglofono, situato nell’ovest del Paese al confine con la Nigeria, reclama la sua indipendenza. Le regioni del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, popolate dal 20 per cento dei 23 milioni di camerunesi, sono sotto coprifuoco. I mezzi privati possono viaggiare solo durante il giorno, mentre le moto sono state bandite dalle strade di alcuni distretti giorno e notte. «Abbiamo adottato queste direttive per ragioni di sicurezza – aveva detto nei mesi scorsi Adolphe Lele Lafrique, governatore del Nord-Ovest, dopo che tre gendarmi e una ventina di separatisti erano rimasti uccisi in uno scontro a fuoco nella località sud-occidentale di Mundemba Ndiam –. Chiunque non rispetterà tali misure sarà punito secondo la legge e le norme in vigore».
Nel 2017, Biya, al potere dal 1982 e candidato per le elezioni di questo ottobre, aveva bloccato l’accesso a Internet nella zona anglofona per cinque mesi. Nonostante alcuni segnali di blanda riconciliazione, da Yaoundé l’ordine è sempre stato di «fermare ogni tentativo di secessione», per quanto piccolo sia.
Secondo gli analisti, le due regioni occidentali, ricche di petrolio, gas, legname e prodotti agricoli, assicurano il 60% del Pil camerunese, e rappresentano una fonte troppo importante per Yaoundé. Le amministrazioni anglofone sono dominate dalla presenza di francofoni per mantenere il controllo del governo sul territorio. La popolazione anglofona sta protestando contro un processo di assimilazione forzata nel sistema francofono.
PAKISTAN - La famiglia di Asia Bibi vive nascosta e chiede aiuto all'Italia
"Solo ieri siamo riusciti a contattarli e abbiamo parlato per circa 10 minuti". Il racconto della telefonata tra il marito di Asia Bibi e il direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre-Italia. La donna, assolta dalla Corte Suprema con la falsa accusa di blasfemia, è ancora in carcere e la sua famiglia vive nascosta. Per i maggiori leader musulmani pakistani, la donna è innocente e difendono la decisione dei giudici
"Faccio appello al Governo italiano affinché aiuti me e la mia famiglia ad uscire dal Pakistan". È il drammatico appello al telefono con Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) di Ashiq Masih, marito di Asia Bibi. Mentre la donna resta ancora in carcere in attesa della registrazione della sentenza di assoluzione, la famiglia vive nella paura.
La telefonata
"Ci siamo sentiti ieri sera: provavamo da alcuni giorni a contattarlo - ci racconta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia - Purtroppo, come già saprete, le utenze telefoniche non sono più quelle di un tempo per ragioni di sicurezza e di opportunità, chiaramente. Vivono nascosti, in una zona marginale del Pakistan, non contano su reti di particolare complicità e collaborazione: ecco perché lui ci sottolineava come hanno timore e difficoltà anche a procurarsi il cibo perché già è un problema per i cristiani".
"Per quattro giorni - ha proseguito il direttore - tutti i cristiani sono rimasti chiusi in casa nelle principali città del Pakistan; solo da ieri alcuni hanno incominciato ad uscire. Quindi, la situazione era di oggettivo terrore. Aiuto alla Chiesa che soffre ha dato loro ogni tipo, sottolineo: ogni tipo, di potenziale e necessario supporto, da ogni punto di vista. Tuttavia, è l’attività diplomatica non solo di una fondazione pontificia quale lo è Aiuto alla Chiesa che soffre, ma innanzitutto dei governi nazionali e delle istituzioni sovrannazionali, che in questo momento deve agire. Non riesco veramente a immaginare - conclude Monteduro - se non c’è una forte, concreta volontà politica cosa possa significare per Asia Bibi uscire dal carcere in queste condizioni".
La famiglia di Asia Bibi vive nascosta in un luogo sicuro
Le proteste dei fondamentalisti, che continuano a chiedere che Asia venga giustiziata, hanno costretto i familiari della donna a rimanere chiusi in casa in un luogo sicuro. Nei giorni scorsi anche l’avvocato difensore di Asia, Saif ul-Malook è stato costretto ad andare all’estero. «Siamo estremamente preoccupati perché la nostra vita in pericolo – dichiara l’uomo ad Acs – Non abbiamo neanche più da mangiare perché non possiamo uscire a comprarlo».
Asia Bibi: il Pakistan sotto scacco degli integralisti
Invito alla comunità internazionale a mantenere alta l’attenzione sul caso di Asia
Ashiq chiede dunque asilo al governo italiano e soprattutto un aiuto a lasciare il Paese. Al contempo l’uomo invita i media e la comunità internazionale a mantenere alta l’attenzione sul caso di Asia. "È stata proprio questa attenzione a tenerla in vita finora. E ringrazio in particolare Aiuto alla Chiesa che Soffre che, invitandoci al proprio evento del Colosseo rosso, ci ha offerto l’opportunità di parlare al mondo". (M.P. - Acs)
Leader musulmani pakistan in difesa della decisione della Corte Suprema di assolvere Asia Bibi
All’Agenzia Fides alcuni leader musulmani pakistani difendono la decisione della Corte Suprema che ha assolto Asia Bibi. "Nessuno può tollerare una bestemmia contro il Profeta Maometto e siamo pronti a sacrificare le nostre vite per lui” afferma il Mufti Akeel Pirzada, presidente del "Consiglio degli Ulema per la Pace" impegnato per costruire l'armonia interreligiosa in Pakistan. “Ma come potrebbe mai la Corte punire un imputato quando vi sono solide prove sulla sua innocenza? La decisione della Corte Suprema del Pakistan di assolvere Asia Bibi è notevole e dà un messaggio a tutto il mondo: la giustizia esiste in Pakistan, per tutti i cittadini, indipendentemente dalla religione, cultura o etnia". Dello stesso avviso il maulana Tariq Jameel, noto studioso e predicatore televisivo, che afferma: "Ho letto la sentenza e credo che Asia Bibi sia innocente. Non vi è alcuna ragione sensata per scendere in strada e protestare. Se fosse colpevole, anche io sarei sceso in strada, ma non lo è" . Accanto a lui altri ulema come Allama Muhammad Ahsan Siddiqui, fondatore e leader della "Interfaith Commission for Peace and Harmony" a Karachi, hanno diffuso simili pronunciamenti.
(Ultimo aggiornamento 6 novembre ore 14:00) Radio Vaticana