2018 08 15 L'odio anticristiano non si arresta
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

PERÙ - Missionario gesuita trovato morto in una comunità indigena amazzonica
La mattina di venerdì è stato trovato senza vita, legato e “con segni di violenze”, nella comunità indigena amazzonica di Yamakentsa, il corpo di padre Carlos Riudavets Montes, sacerdote spagnolo della Compagnia di Gesù di 73 anni di età. Nel pomeriggio la congregazione ha reso noto il fatto, manifestando “sconcerto e dolore” ed affermando “il rifiuto ad ogni forma di violenza” e la fiducia che le autorità possano chiarire le cause e le circostanze nelle quali ha avuto luogo l’assassinio. La conferenza episcopale peruviana ha espresso il suo cordoglio alla Compagnia di Gesù in un comunicato firmato da mons. Miguel Cabrejos, arcivescovo di Trujillo e presidente dell’organismo. “Padre Riudavets era dedito all’educazione delle famiglie delle comunità native dell’Amazzonia” da 38 anni, scrive il vescovo, che chiede alle autorità di trovare i responsabili del crimine. In una dichiarazione al canale RPP Noticias, la dirigente scolastica distrettuale Gumercinda Duire ha informato che il corpo del missionario è stato trovato all’alba dalla cuoca sul pavimento della sua residenza presso la scuola “Valentín Salegui” della menzionata comunità indigena situata nel distretto di Yamakai-éntsa (provincia di Bagua), appartenente al vicariato apostolico di Jaén. “Il padre era molto amato. È molto strano quello che è accaduto”, ha aggiunto la dirigente. (SM) (Agenzia Fides 11.08.2018)
ETIOPIA - Chiese incendiate e sacerdoti uccisi nella Regione del Somali
Il Patriarca Matthias I e il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa Tewahedo d’Etiopia hanno deciso di offrire i 16 giorni di digiuno e preghiera che precedono e seguono la solennità liturgica della Dormizione di Santa Maria Madre di Dio – celebrata il 15 agosto), per invocare il dono della pace e della riconciliazione a Jijiga e nella Regione dei Somali, dopo le violenze di carattere etnico che nei giorni scorsi sono esplose in quella parte dell’Etiopia, provocando circa 30 vittime. Proprio la Chiesa ortodossa etiope ha pagato un alto prezzo alla spirale di violenza: secondo informazioni fornite dai media locali, almeno sette chiese ortodosse sono state assaltate e date alle fiamme, e fonti locali parlano di almeno sei sacerdoti e diversi fedeli uccisi.
Gli scontri sono iniziati alla fine della scorsa settimana, quando uomini armati delle milizie Liyu, di etnia somala e agli ordini di Abdi Illey (Presidente della Regione dei Somali) hanno tentato di interrompere un incontro fra i membri del parlamento regionale e rappresentanti della popolazione della città di Dire Daua, intenzionati a denunciare la violazione dei diritti umani nella regione. Gli episodi di violenza hanno provocato l’intervento dell’esercito etiope, che ha schierato le sue truppe anche intorno alle sedi istituzionali, compreso il palazzo del parlamento regionale e il palazzo presidenziale dello stesso Abdi Illey. Un intervento massiccio, a cui sono seguiti gli attacchi contro obiettivi legati alle etnie minoritarie, fomentati da appartenenti alle milizie Liyu. La spirale di violenze ha accentuato anche i contrasti tra l’amministrazione regionale e il governo di Addis Abeba, portando anche alle dimissioni del governatore regionale Abdi Illey, che nelle ultime ore – come riportato da media locali - è stato anche arrestato e posto sotto custodia dalle autorità di Addis Abeba.
Da tempo, la regione dei Somali appare instabile. Il primo ministro, Abyi Ahmed, ha voluto compiere proprio in quell’area del Paese la sua prima visita dopo l’insediamento all’inizio dello scorso aprile.
Al momento – riferiscono le fonti ufficiali della Chiesa ortodossa Tewahedo - più di 20 mila etiopi sfollati vengono sostentati e assistiti dalle parrocchie ortodosse di Jijiga.
La Chiesa ortodossa Tewahedo d’Etiopia, guidata da Abuna Matthias I, è l’unica compagine ecclesiale autoctona e di diretta derivazione apostolica nell’Africa subsahariana. “La chiave dell’unità fra le Chiese” ha detto al Patriarca etiope dopo aver incontrato a Roma Papa Francesco, il 29 febbraio 2016 “sta oggi proprio nell’’ecumenismo dei martiri” (GV) (Agenzia Fides 8/8/2018).
IL RACCONTO
“Sabato 4 agosto mi trovavo a Jijiga per la benedizione di una cappella su un terreno periferico distante dal capoluogo circa 5 km. Con me erano venuti 300 cattolici, tra questi una sessantina da Dire Dawa e Harar”, ha raccontato a Fides mons. Angelo Pagano, Vicario Apostolico di Harar trovatosi coinvolto in quello che si è trasformato in un tragico evento.
“Dopo la Messa, prima della benedizione finale siamo soliti fare una processione con l’ostensorio intorno alla cappella nel terreno della missione, ma siamo rimasti bloccati da un incendio divampato in una chiesa ortodossa a 50 metri di distanza. Giovani armati di bastoni avanzavano verso di noi e hanno iniziato a lanciarci pietre. Tolti i paramenti sacri, insieme ad un anziano del villaggio: siamo andati a vedere cosa stesse accadendo. Siamo riusciti a parlare con alcuni giovani che comunque ci intimavano di andare via. Rientrando ci siamo imbattuti in un sacerdote che purtroppo era già morto e in un altro rimasto ferito che siamo riusciti a portare nel nostro compound. Siamo rimasti sotto assedio circa 6 ore, nonostante avessimo chiamato la polizia somala nessuno si è visto. Siamo riusciti a fare partire un po’ di gente con 4 o 5 macchine mentre una è stata attaccata e colpita con armi da fuoco senza fortunatamente feriti che poi sono scappati a piedi. Uno dei nostri cristiani arrivato con un soldato ci ha scortati con altre 4 macchine e siamo arrivati a Jijiga la notte. Il giorno dopo abbiamo realizzato che in 7/8 punti del nostro Vicariato di Harar (266 mila kmq) sono state bruciate 8/10 chiese ortodosse, uccisi sacerdoti, diaconi e gente che svolgeva varie mansioni nelle chiese. A noi cristiani è andata relativamente bene, sono i nostri fratelli cristiani-ortodossi che hanno sofferto davvero tanto, commenta il Vescovo”
“Abbiamo sentito il Signore molto vicino, è stato l’unico ad aiutarci. Non avevamo niente da poter offrire alle 500 persone che abbiamo accolto nei nostri compound della missione cattolica. Grazie alla collaborazione di tutti e dei 5 sacerdoti del nostro Vicariato insieme agli ortodossi siamo riusciti a sfamare tutti sentendoci una famiglia”, continua padre Angelo che come tutti i presenti ha vissuto una situazione molto difficile. “Il giorno dopo l’attacco abbiamo saputo che anche la nostra nuova cappella è stata distrutta, non hanno potuto darle fuoco in quanto fatta di mattoni, ma hanno distrutto tutto quanto non siamo riusciti a portare via, immagini sacre, Crocifisso, generatori, ecc.” ha commentato il Vescovo”.
“Il lunedì successivo il Presidente della Regione Somali, Abdi Illey, “aggiunge padre Angelo “ha convocato i leader religiosi e ci sono andato anche io. Ha detto che lui vuole la pace e ci ha pregati di dire ai nostri cristiani di non vendicarsi perché lui sa che chi ha perpetrato quegli atti vandalici non sono altro che ladri. Io sono intervenuto facendo presente che secondo me non si è trattato di semplici ladri quanto di guerra di religione e che avrebbe dovuto vedere come si sono comportati i ribelli somali, come hanno attaccato solo luoghi di culto e come abbiano ucciso solo cristiani. Gli ho anche detto che, come lui ci ha invitati a diffondere la pace, altrettanto dovrebbero fare i leader mussulmani dai loro minareti. Poi si è dovuto concludere l’incontro ed andare via in tutta fretta.”
“Da due anni mi trovo in questa regione e ho constatato che allo scadere di ogni anno si verificano episodi come quest’ultimo. Settembre 2016, ottobre 2017 e adesso agosto 2018. Questo mi fa nascere la convinzione sempre di più che si tratti di attacchi studiati a tavolino sempre in diverse zone dello stesso Vicariato. E’ impossibile, per me, che episodi di violenza si ripetano sempre nella nostra zona. Confidiamo molto nel nostro nuovo Presidente del Governo che finora è stato sempre presente e continua a lavorare per la pace del nostro popolo. Illey è stato costretto a dimettersi ed è stato arrestato anche se temiamo ripercussioni. La conseguenza triste immediata è che molti cristiani hanno incominciato a lasciare la zona per rifugiarsi ad Harar e dintorni”, conclude il Vicario Apostolico.
(AP) (9/8/2018 Agenzia Fides)
INDIA - Dieci anni fa la più grande violenza anti-cristiana nella storia dell’India
Compie dieci anni la campagna di massacri anticristiani verificatasi in Orissa nel 2008: si tratta della più grande ondata di violenza contro i credenti nella storia della nazione. Oggi la popolazione del distretto di Kandhamal, nello stato indiano di Orissa, teatro dei massacri, ha ancora bisogno di cure e chiede giustizia.
“Speriamo che ricordiate il genocidio avvenuto nell’Orissa nel 2008. Appena dopo otto giorni dalla celebrazione del Giorno dell’Indipendenza, l’India è stata testimone del più grande attacco contro una comunità religiosa, nella sua storia . Dal 2009, la gente di Kandhamal e celebra il 25 agosto come Giornata di memoria per le vittime. Quest’anno sarà il decimo anniversario dalle violenze”, rileva il team del “National Solidarity Forum” rete di oltre 70 organizzazioni indiane, che includono attivisti, sacerdoti, religiosi, avvocati, fedeli cristiani e indù.
Secondo i dati riferiti a Fides dal “National Solidarity Forum”, durante quella ondata di violenza, 393 chiese e luoghi di culto appartenuti ai cristiani adivasi (tribali) e dalit sono stati distrutti, circa 6.500 case sono state rase al suolo, oltre 100 persone sono state uccise, oltre 40 donne sono state vittime di stupro, molestie e umiliazioni e diverse istituzioni educative, sociali e sanitarie sono state saccheggiate. Oltre 12.000 bambini hanno perso l’opportunità di avere una istruzione. Più di 56.000 persone furono costrette a fuggire da Kandhamal e a rifugiarsi nelle foreste. Sono stati segnalati diversi casi di conversione forzata dal cristianesimo all’Induismo compiuti dal gruppo estremista indù “Sangh Parivar” . Gli sfollati di Kandhamal oggi sono sparpagliati in diverse parti del paese. Molti di loro non possono tornare nei loro villaggi di origine, e sono stati costretti a rifarsi una vita cercando casa e lavoro fuori dal loro distretto di nascita.
“È troppo importante notare che la gente originaria di Kandhamal non ha mai operato o risposto con la violenza. Dopo dieci anni di violenze e soprusi, i sopravvissuti di Kandhamal stanno ancora lottando per la pace, la giustizia e l’armonia”, rileva il Forum in una nota inviata a Fides.
Come denuncia anche la Chiesa cattolica in Orissa, il risarcimento fornito dal governo per le vittime e i sopravvissuti di Kandhamal è stato minimo. Ci sono state oltre 3.300 denunce, ma sono stati registrati solo 820 casi in tribunale. Tra questi procedimenti, 518 casi sono stati riconosciuti come ammissibili dalla Corte. E su questi 518 casi, 247 casi sono stati achiviati, senza riconoscere alcun colpevole, per varie ragioni, come mancanza di prove o testimoni. Il resto dei casi è tuttora pendente nei tribunali di primo grado, mentre molti processi si sono già risolti con una assoluzione. Se si considerano le denunce originarie presentate, allora solo l’1% dei casi ha trovato una conclusione processuale.
Il 2 agosto 2016, una sentenza della Corte Suprema ha riconosciuto che il quantum e la portata del risarcimento non erano soddisfacenti per le vittime di Kandhamal. “Pertanto, coloro che sono stati esclusi nella lista di compensazione devono essere immediatamente inclusi. Ciò include il risarcimento alle famiglie di molti di coloro che sono stati uccisi, un risarcimento per la distruzione di case e proprietà, un risarcimento per gli edifici e le chiese, per istituzioni e ONG”, rileva il Forum.
L’Alta Corte ha trovato inquietante il fatto che 315 casi di violenza comunitaria erano stati archiviati e ha chiesto al governo statale di riesaminare questi 315 casi. Ma questo processo non è ancora stato attivato. Per assicurare la giustizia ai sopravvissuti delle stragi di Kandhamal, il “National Solidarity Forum” per le vittime dell’Orissa oggi chiede: una task force per monitorare i casi e i processi; la protezione dei testimoni contro le intimidazioni; un’indagine libera ed equa per riaprire i casi archiviati.
“Oggi nessuno dei criminali responsabili delle violenze è in prigione. Gli assassini, gli stupratori, i saccheggiatori sono a piede libero, mentre sette innocenti cristiani sono ancora in carcere ingiustamente”, accusati per l’omicidio del leader indù .
In tale contesto che il “National Solidarity Forum” e l’Associazione dei sopravvissuti di Kandhamal lanciano un appello “a quanti credono nella laicità, democrazia, giustizia, pace e armonia perchè si osservi una Giornata per le vittime di Kandhamal il prossimo 25 agosto 2018” o nei giorni vicini a quella data. La Giornata sarà osservata il 28 agosto a Kandhamal e il 29 agosto a Bhubaneshwar, alla presenza di oltre 10.000 persone.
Durante l’evento, nelle varie celebrazioni, si chiederà di sostenere e l’attuazione della giustizia per le vittime, tramite l’individuazione dei colpevoli e la ricostruzione delle case e chiese distrutte. Si chiede inoltre di istituire una “Commissione per le minoranze dell’Orissa” per “scongiurare in futuro decisioni tendenziose e per tutelare processi decisionali armoniosi e partecipativi, verso i cittadini di qualsiasi fede religiosa”. (PN ) (Agenzia Fides 7/8/2018)
VENEZUELA - Vescovi: dissenso messo a tacere, contro il popolo violenza repressiva
In Venezuela - scrivono i vescovi venezuelani - il popolo chiede “cibo, farmaci, luce elettrica, trasporti pubblici, gas, stipendi degni”. Ma nulla di tutto ciò sta accadendo... E si violano le leggi e gli articoli della Costituzione.
Il Venezuela sta attraversando una situazione molto delicata: nel Paese si vuole instaurare una spirale di violenza e frantumare la giustizia eludendo il controllo delle leggi e delle procedure legali. Da questo scenario deriva una situazione di arbitrarietà, sempre più slegata dai riferimenti dell’ordinamento giuridico, che porta alla “persecuzione fisica, all’intimidazione e alla violazione dello stato di diritto”. Si apre con questa preoccupante analisi sul deterioramento della giustizia nel Paese latinoamericano il comunicato diffuso ieri dalla Conferenza episcopale venezuelana dopo l’arresto, nei giorni scorsi, di almeno sei persone che secondo le autorità, sarebbero coinvolte nella pianificazione e nell’attuazione del fallito attentato, condotto con droni carichi di esplosivo lo scorso 5 agosto, durante una parata militare nel centro di Caracas, alla presenza del presidente Nicolas Maduro.
La dignità della persona è l’essenza della giustizia
Poche ore dopo il fallito attentato, il capo di Stato venezuelano ha dichiarato di avere prove, tra l’altro, del coinvolgimento della Colombia. Le sue accuse sono state immediatamente respinte dal governo di Bogotà. Secondo diversi osservatori, in realtà, l’azione dinamitarda sarebbe stata orchestrata dai servizi segreti venezuelani con lo scopo di reprimere, ancora più duramente, le istanze dell’opposizione. Tra questi David Smilde, del Washington Office on Latin America, sostiene che il presidente Maduro intende utilizzare il fallito attentato per epurare funzionari governativi infedeli, oltre ad imporre ulteriori restrizioni alle libertà civili. Grandi timori sono espressi, nel comunicato, anche dai vescovi venezuelani secondo cui uno stato di diritto dovrebbe escludere “ogni tipo di tortura e trattamenti crudeli, disumani e degradanti”. La dignità della persona e i diritti fondamentali non possono mai essere negati. “Questa” – aggiungono i presuli - è “l’essenza ultima della giustizia”.
Si promuova la pace e si cerchi la verità
Purtroppo nel Paese – osservano poi i vescovi - quanti si sentono legittimati dal potere stanno usando “l’unica arma di chi ha torto: la violenza repressiva”. E questo – spiegano - porta alla violazione delle leggi, degli articoli della Costituzione e dei diritti umani. Intanto il popolo “chiede cibo, farmaci, luce elettrica, trasporti pubblici, gas, stipendi degni e un freno all’inflazione”. Ma nulla di tutto ciò sta accadendo: “al contrario, si vuole esercitare un controllo sociale e si mette a tacere il dissenso”. Agli organismi di sicurezza dello Stato i vescovi chiedono poi di “cambiare il loro atteggiamento” e di comprendere “il momento di grandi sofferenze del popolo”. Dai presuli, infine, l’esortazione a “continuare a promuovere la riconciliazione e la pace, la ricerca della verità”. “Cercare la verità - concludono - è compito di tutti”.
(14 08 2018 Amedeo Lomonaco - Città del Vaticano)